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Lo Zibaldone

Giuseppe Digiacomo, “La cartiera del principe”

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di Marta Galofaro

Immagina che un uomo sul letto di morte chiami al suo capezzale un amico per affidargli una cartella piena di fogli e di segreti con una raccomandazione: “Non ti lasciare sfuggire una parola sul loro contenuto, che ti autorizzo a leggere ma non a divulgare […] Un giorno, quando sarà, […] avvertirai il segnale chiaro, inequivocabile, che è giunto il momento di rivelare al mondo i segreti contenuti in queste carte”.

Immagina un bar, a Val d’Ippari, il Tropical, e che dietro le sue tende rognose stia accadendo qualcosa di incredibile: le anime siciliane stanno per essere giudicate e a ciascuna di loro è concesso, dal momento che i Fattori nell’emissione del verdetto ne terranno conto, raccontare la propria versione dei fatti della loro storia, prima del giudizio finale.

Così Digiacomo nel suo ultimo romanzo, La cartiera del principe, cambia e sovverte i criteri di giustizia terreni e ultraterreni e le anime in suppillo (in pena), raccontano le loro storie “saccheggiando a piene mani letteratura, arte, musica, cinema, teatro, storia, storie, nel tentativo di farla franca e di guadagnarsi la beatitudine eterna”. E questo perché, come spiega Sua Eccellenza a Pietro tuculiuni, non è il caso di usare l’onniscienza per giudicare le miserie umane in quest’angolo minuscolo dell’Universo: “Da quando in qua spariamo ai passeri con un cannone?”. “Ricapitolando, agli uomini concessi il libero arbitrio, quindi, come sempre, li ho lasciati liberi non solo di agire ma anche di rappresentare i fatti come gli piacesse: menzogna e verità sono concetti umani e qui non siamo in un tribunale terreno, qui noi giudichiamo con altri metodi, con altre logiche”.

Nel frattempo la Morte, in abito nero e con la falce, come vuole la tradizione, aspetta di compiere il proprio lavoro scucchiaiando granita di gelsi neri all’ombra del Mastio.

Poi il segnale inconfutabile: le pagine segrete devono essere divulgate ed è così che, unite agli appunti dimenticati al Tropical da un certo Gabriele ‘U Mutangulu, riordinate con rigore filologico, possiamo leggere anche noi le storie di miseria e nobiltà, ira, omicidio, truffa, abuso, corruzione, suicidio, invidia, incontinenza, lussuria, avidità, furto e inganno tra cui si agita l’ensemble dei cento e più personaggi, plausibili e verosimili, della Sicilia di fine ‘800.

Nelle pagine de “La cartiera del principe” nulla è come sembra, verità e menzogna si confondono e, in perfetto stile pirandelliano, non esiste una prospettiva privilegiata da cui il lettore può carpire la verità perché le prospettive sono tante, come tanti e diversi sono i personaggi che animano questo romanzo.

Il testo ha una premessa dell’autore che si diverte ad interagire con il lettore e lo invita ad arrangiarsi qualora “asino e pigro” non riesca a trovare la traduzione delle frasi e dei termini in dialetto alla fine del libro. All’irriverente premessa segue un “prefazione superba”: “dopo questo libro, non avrai bisogno di leggere null’altro”, poi “ventitré racconti, sette peccati capitali, quattro virtù cardinali, una tragedia in tre atti, un vocabolario, due secoli di storia”.

Un meraviglioso dipinto del pittore Giovanni La Cognata arricchisce la copertina de La Cartiera del Principe, il libro irriverente e complesso di Giuseppe Digiacomo con cui nasce la prima collana di narrativa edita da Archilibri, iDardi.

Il romanzo corale e postmoderno di Digiacomo è caustico ed irriverente e al contempo sempre elegante e raffinato. Storia, teatro, giallo, commedia vi sono miscelati con un risultato strepitoso, avvincente ed efficace, da cui traspare l’amore per una terra, la Sicilia, ardua e complessa, intrigata e intrigante, fatta di contrasti e di contraddizioni, ma incomparabile con nessun’altra.

 

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