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Lo Zibaldone

François Jullien, L’inaudito. All’inizio della vita vera

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di Francesco Roat

Inaudito è termine sommamente metaforico. Esso non allude solo a una parola o a un discorso mai ascoltati prima, bensì a tutto quanto ci risulta mai sperimentato prima, nuovo, insolito, innovativo. Inaudito è pure una boccata d’aria fresca, un sospiro di sollievo, la ritornata voglia di vivere dopo stagioni grigie, tediose, sempre uguali a se stesse. Tutti quanti vorremmo imbatterci nell’inaudito, però esso ci sembra che accada molto raramente o debba storderci quasi come un colpo di fulmine amoroso nei confronti di un/una sconosciuto/a. Tuttavia dopo la luna di miele spesso inizia la routine di un rapporto intriso di quotidianità e ripetitività. E l’inaudito che ci pareva d’aver colto s’è volatilizzato, non lo scorgiamo più. Sarebbe bello imbattersi di nuovo in lui, ritrovarlo svegliandoci ogni mattina, vivendolo ogni giorno. Ma come riuscire a farlo?

È quanto si/ci chiede François Jullien in un suo saggio alla ricerca dell’inaudito, dove egli propone di iniziare da un’operazione preventiva di scarto. Bisogna, a suo avviso, scartare dalle opinioni comuni, da cosa pensano gli altri, dai partiti presi; inoltre: “si deve scartare anche rispetto a se stessi, prendendo le distanze dalle proprie abitudini di vita come di pensiero, scostandosi da esse, aprendole, per issarsi al di fuori di quanto nell’esperienza si trova già sempre canalizzato e precostituito”. Attenzione però a non confondere l’inaudito con lo straordinario. Non è l’eccezionale, il prodigioso ciò di cui dovremmo andare in cerca, ma quanto ‒ nell’ordinario ‒ sfugge alla nostra capacità percettiva. Non è in un qualche improbabile mondo favoloso o fantastico che potremmo finalmente/durevolmente udire l’inaudito.

“L’inaudito è non il nascosto, il celato o il segreto ‒ nota acutamente il filosofo francese ‒ quanto, piuttosto, il massimo dell’evidenza, come tale legato a doppio filo all’«ovvio», nonostante appaia il suo contrario”. Sembra paradossale, ma spesso ci è sconosciuto (in quanto non debitamente apprezzato) giusto quello che abbiamo sempre davanti agli occhi. Quindi disporsi ad accogliere l’inaudito non comporta dover recarsi/avventurarsi chissà dove, ma essere disponibili ad una totale apertura, a lasciarsi toccare in profondità dagli eventi normali della vita. Forse aveva ragione Lucrezio, quando nel suo capolavoro (De rerum natura) osservò che già ai suoi tempi nessuno si degnava più di alzare lo sguardo alla pur splendida volta del cielo. E se consistesse proprio in un tale disponibilità d’animo la chiave d’accesso all’inaudito? O nella mancanza di ambizioni/aspettative, grazie alla quale il miracolo dell’ordinarietà può venir colto?

Una cosa mi sembra chiara: più ci sforziamo di far nostro l’inaudito (mai tesaurizzabile) più esso ci sfugge. Jullien si spinge oltre, dicendo che se il tedio (lo stallo esistenziale) invischia la vita ripiegandola su un “sé” che la blocca e congela, l’inaudito la libera espandendola sino: “allo spossessamento di quello stesso sé” che vorrebbe imprigionarla/controllarla. È questa forse la dimensione di un’autentica e-sistenza, intesa quale attitudine a tenersi fuori (ex-sistere, appunto) da qualunque velleità di dominio sulle cose, sugli altri e sulle circostanze. “Il problema ‒ osserva dunque l’autore ‒ è quello di staccare l’inaudito da ogni prospettiva di «per sé»”. Anche poiché l’inaudito non è solo inassimilabile ma pure impensabile (dalla prospettiva della ragione calcolante).

Ma allora il problema che sta alla base della tematica torna urgente: come dire l’inaudito, come salvarlo dall’insignificanza, indicarlo a se stessi e agli altri? Tramite la metafora, potrebbe essere una modalità non banale. Metafora in greco vuol dire trasporto/trasferimento; essa è parola che conduce ad una diversa parola, è espressione poetica (creativa) la quale permette quello che Jullien chiama discoprimento rivelatore. La metafora infatti non pretende di spiegare quanto da lei accennato; lo indica piuttosto indirettamente, consentendoci di aprirci alla “irruzione dell’altro”, che non viene integrato o decifrato ma può darsi, giusto per immagine traslata.

La parola però, rispetto all’inaudito, si arresta qui. Oltre ad alludere, di più non può fare. Resta il silenzio a soccorrerci. Il far tacere la mente, mettendo da parte le pretese/supponenze egoiche. Rimane la disponibilità ad accettare ogni evento per quel che è, senza stabilire se positivo o negativo, bello o brutto, buono o cattivo. Nell’accoglienza fiduciosa, silente e non saccente, l’inaudito può palesarsi. Allora davvero tutto può apparir tale. E potremmo giungere a dire ‒ come il grande poeta Rilke ‒ che anche solo: “Essere qui è meraviglioso” (Hiersein ist herrlich).

François Jullien

L’inaudito. All’inizio della vita vera,

Feltrinelli, Milano 2021

pp. 153, euro 17,00

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