Lo Zibaldone
Edgar Morin, ancora un momento
di Francesco Roat
L’ormai ultra-centenario, nonché celeberrimo intellettuale francese, Edgar Morin ha pubblicato ancora un libro, da poco tradotto in italiano. Il titolo, autoironico quanto il suo autore, è già tutto un programma. Si tratta di: Ancora un momento, ed è tratto dalla frase rivolta al boia da parte della contessa Du Barry, nel 1793, con cui lo supplicava di concederle almeno alcuni istanti di vita prima di finire ghigliottinata. Ancora un momento, quindi, per dire qualcosa di significativo ai propri lettori, iniziando da “quel sentimento di stupore”, che da sempre ha invaso l’animo dell’autore di fronte al miracolo della natura, dell’esistenza e della varietà di esseri che popolano questo nostro piccolo/grande pianeta.
D’altronde Aristotele, nel noto brano di apertura della Metafisica, sostiene che la filosofia nasce giusto dal thaumazein: dal nostro stupirci di fronte a quanto ci affascina, ci commuove e al contempo ci inquieta. Giacché il filosofo, ovvero l’amante del sapere, non è tanto un fabbricatore di teorie e concetti quanto il saggio che si interroga sul significato che ha per l’uomo ogni cosa del mondo che suscita in lui la benefica meraviglia. E questo è ciò che sin dalle prime righe del libro vuole comunicarci Morin: il suo “stupore di vivere”, ed al contempo egli intende far sì che noi ci poniamo la domanda che da sempre lo ha stupito, intorno al perché di tanta gratuita proliferazione vitale, unita alla sua “favolosa eco-organizzazione, fatta di antagonismi e solidarietà, pratiche predatorie e simbiotiche”. Domanda alla quale egli risponde con una sola parola, asserendo che si tratta di un “mistero”.
Termine che può suonare insolito sulle labbra di un filosofo, ma che il nostro centenario utilizza giusto per indicarci qual sia la meraviglia “di una straordinaria auto-eco-organizzazione scaturita dall’incontro fra diversi elementi molecolari, puramente fisico-chimici, da cui sono emerse le qualità proprie di quella che chiamiamo vita: la cognizione, l’autoriproduzione, l’autocorrezione, la mobilità, la costante assimilazione di energie esterne in una lotta continua contro il degrado e la morte”. Ed oltre allo stupore per il semplice fatto di esserci, c’è ‒ sempre secondo Morin ‒ quello nei confronti di un universo, di cui non sappiamo nemmeno perché esista e se sia destinato all’annichilamento o ad un continuo rinnovamento.
Anche della coscienza dovremmo meravigliarci; specie dell’autocoscienza: la “conoscenza che riflette su se stessa”. Infatti, nonostante il riduzionismo di quegli neuroscienziati che vorrebbero ricondurla a mere attività neuroniche, essa, pur emergendo dal nostro cervello, non può essere spiegata tramite le operazioni cerebrali da cui dipende ma non equivale. Del resto una certa qual forma di coscienza è presente perfino negli organismi unicellulari, che di cervello non ne hanno punto, ma possiedono cognizioni biologiche, memoria ed anche una sorta di pur limitata autocoscienza. Ad esempio, osserva il pensatore francese, un batterio deve “conoscere se stesso” per poter duplicare il proprio materiale genetico ed altresì aver cognizione della realtà a lui esterna per potersene servire, anche cooperando con altri esseri simili a lui.
Si giunge così ad un paradosso neppur tanto tale: nel mondo vi è coscienza senza necessità di mente o pensiero. Ad esempio quella di tipo vegetale, che permette alle piante di interagire con l’ambiente, producendo il miracolo della fotosintesi clorofilliana e di svariate altre complesse funzioni vitali. Rispetto a tutto ciò la riflessione Morin è davvero interessante: “La coscienza nasce dal carattere autoreferenziale dei circoli di azione e interazione che sopraggiungono in seno a ogni organismo vivente (…) Quanto al problema specifico della coscienza umana di sé, essa fa di noi un soggetto particolare: cosciente di essere soggetto (…) il che implica anche il prendere coscienza della nostra dipendenza da altri”.
In primo luogo la dipendenza dal pianeta su cui siamo nati e che ci nutre, la Terra: “L’aiuola che ci fa tanto feroci”, per dirla con Dante, giacché invece che rispettarla la saccheggiamo, devastiamo ed inquiniamo, anche tramite guerre dettate da una volontà di potenza incosciente del rischio di un conflitto nucleare dagli esiti facilmente immaginabili. “Dobbiamo affrontare, tutti” ‒ è il duro e netto j’accuse di Morin ‒ “il degrado ecologico, la proliferazione delle armi di distruzione di massa, l’egemonia della finanza sui nostri Stati e i nostri destini, il crescere di fanatismi ciechi, il ritorno della guerra in Europa. Paradossalmente, proprio nel momento in cui si dovrebbe prendere coscienza in modo solidale della comunità di destino di tutti i Terrestri”.
Ma ciò non sembra ancora sufficientemente chiaro a molti/troppi di noi. Così, sempre a proposito di consapevolezza intelligente, occorre elaborare un tipo di pensiero critico: “in grado di cogliere la multidimensionalità delle realtà”, non semplificandole attraverso manicheismi di tipo ideologico o illudendoci che scienza e tecnologia riusciranno un bel giorno a risolvere i problemi che ci opprimono; come è opportuno renderci conto che i nostri bisogni e obiettivi non debbono essere solo economici. Perciò ‒ è la conclusione, politica di questo j’accuse ‒: “Dobbiamo abbandonare i dogmi del neoliberismo, della competitività cieca ed esacerbata, dello sviluppo per una crescita esponenziale. Abbiamo bisogno di un pensiero in grado di concepire al tempo stesso la crescita e la decrescita”. La via maestra è dunque: “quella di un pensiero globale”.
Edgar Morin, Ancora un momento. Testi personali, politici, sociologici, filosofici e letterari, Raffaello Cortina Editore, 2024, pp. 157, euro 14,00

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