Lo Zibaldone
Donare la morte
di Francesco Roat
Per tutta la vita Derrida fu assillato dal problema della morte ‒ il celebre filosofo lo ebbe a confessare in un’intervista ‒ e, non a caso, Donare la morte: il saggio riproposto recentemente in italiano da Jaca Book, come nota nell’introduzione al testo Silvano Petrosino, può venir colto quale una sintesi delle tematiche che attraversano la proposta più matura della riflessione del pensatore francese. Ed il primo interrogativo che emerge da queste pagine ‒ non sempre di facile lettura, causa la complessità stilistico-espressiva del grande decostruzionista ‒ è senz’altro la domanda cruciale: cosa significhi donner la mort, tenuto conto che in francese tale frase ambigua significa sia dare la morte (nel senso di uccidere/far morire) che donare la morte (nel senso di far dono della propria morte a qualcuno).
Questione non certo banale, tant’è che essa suscita altri interrogativi rispetto ad un tale azione; quale ad esempio il seguente: “Come la si dà nel senso in cui darsi la morte significa morire assumendosi la responsabilità della propria morte, suicidarsi ma anche sacrificarsi per gli altri, morire per l’altro, dunque forse donare la propria vita dandosi la morte, accettando la morte data, così come hanno potuto fare in modo così differente Socrate, Cristo e qualche altro?”. D’altronde, ci ricorda Derrida, secondo Platone il philosophos ‒ l’amante della sapienza/saggezza ‒ è colui che si occupa d’esercitarsi a morire (melete thanatou), della cura da prendersi rispetto al morire e della riflessione/meditazione intorno ad esso.
Ma ogni approccio o apprensione nei confronti della morte implica sempre: “un modo di veder arrivare ciò che non si vede arrivare”, poiché sin quando noi viviamo la (nostra) morte non c’è e quando la morte c’è noi non ci siamo più, come osservò lucidamente Epicuro. Così, ci invita a prendere atto Derrida, l’io in un certo senso cerca di anticipare (col pensiero) l’exitus, l’uscita definitiva di scena, dandole un certo valore (o disvalore), e tentando in questo modo, invano, di riappropriarsi di ciò di cui non è possibile appropriarsi. Eppure la morte è appunto quanto nessun altro può affrontare al posto mio. È il luogo ‒ secondo la lezione heideggeriana ‒ della mia insostituibilità. Ma anche compiere il più grande sacrificio per l’altro (morire) resta sempre il mio venir meno; non è possibile morire davvero al posto altrui; al massimo si posticipa, per poco o per tanto, la sua morte.
Allora la prima ed insieme ultima responsabilità individuale sta forse giusto nel come ognuno si pone nei confronti di ciò che nessun altro può fare al suo posto: morire. “Morte”, scrive inoltre Derrida, “è il nome di ciò che sospende ogni esperienza del dare-prendere”; il che non inficia il fatto che dopo la mia morte, e proprio a causa di essa, si possa ancora dare o prendere. Ma come giudicare lo scandalo della morte sacrificale: l’uccidere una vittima umana per Dio, come stava per fare Abramo col proprio figlio amatissimo Isacco poiché così gli era stato richiesto dal Signore?
Abramo obbedisce senza opporsi ‒ anche se tutti sanno che alla fine, quando egli sta per alzare il coltello sul giovane, un angelo interviene per fermarlo ‒; è pronto a compiere quello che potremmo chiamare un grave delitto. Eppure egli intende andar contro un fondamentale precetto etico: “in nome del dovere”, nota Derrida. Ma di un dovere assoluto si tratta, ovvero slegato da ogni altro vincolo; un dovere verso Dio, che è l’Altro per antonomasia. E non dimentichiamo che ogni giorno un po’ tutti noi, moralisti a livello teorico, tendiamo a sacrificare qualcosa o qualcuno per qualcos’altro o per qualcun altro ‒ ci ammonisce ancora l’ultimo degli Ebrei, come volle autodefinirsi il filosofo francese ‒, infatti quasi sempre sacrifichiamo gli altri e i loro interessi/problemi, occupandoci solo dei nostri. Così troppo spesso siamo disattenti alle richieste di aiuto, sostegno, intervento da parte di chi Gesù chiamò il nostro prossimo.
Così, con il non ascoltare, sostenere, curare, amare coloro che non fanno parte della nostra cerchia amicale, parentale o peggio clientelare, noi contribuiamo al loro sacrificio. Con un pizzico di acre ironia Derrida chiede ai suoi lettori: “Come potrete mai giustificare il sacrificio di tutti i gatti del mondo per il gatto che nutrite a casa vostra tutti i giorni da anni, mentre altri gatti muoiono di fame ad ogni istante? E gli altri uomini?”. In questo non rispondere al prossimo sta dunque cristianamente (ma non solo) il male; mentre il bene sta giusto nella risposta all’altro. Concludo, lasciando la parola al filosofo: “A quale condizione c’è bontà, al di là del calcolo? A condizione che la bontà si dimentichi di sé, che il movimento sia un movimento di dono che rinunci a sé, dunque un movimento d’amore infinito”.
Jacques Derrida, Donare la morte, Jaca Book, 2023, pp. 214, euro 20,00

You must be logged in to post a comment Login