Articoli
Destinato alla perpetua insoddisfazione
di Franco Malanima
Di quando rubavo libri
Ho sempre avuto paura dei terremoti. Quando ero ragazzino infilavo le cose più importanti nel mio berretto da baseball e di sera lo lasciavo accanto al letto, così ero pronto a portarlo via alla prima scossa. Questa ossessione di dover mettere tutto al sicuro, credo di averla trasferita nella mia scrittura, in quello che scelgo di scrivere, sempre per urgenza e necessarietà.
Mi chiamo Francesco, da più di vent’anni vivo tra la Francia e gli Stati Uniti; quando mi presento, dico che sono napoletano, non europeo, né italiano, non so se c’è differenza: essere napoletano è una specie di sineddoche, ma te lo spiego meglio più avanti. Su di me per fortuna non ci sono molte informazioni in giro, ma alcuni studenti della Florida State University hanno creato una pagina Wikipedia, in cui c’è scritto che baserei le mie opere su esperienze realmente vissute, e nella mia vita romanzesca mi sarei servito di diversi eteronimi. Che ti devo dire, se è scritto su Wikipedia, sarà vero…
Qualche anno fa, ho preso una bella casetta ad Annecy, una tranquilla cittadina sul lago. C’è molta umidità e la luce è tiepida, grigiastra, sembra di stare a Bologna, che anche è una città in cui ho lavorato, in uno dei miei rari tentativi di riconciliazione con il mio paese. Ad ogni modo, questo è un buon posto per crescere dei figli. Io ne ho una, è meravigliosa, si chiama Matilda. Ma procediamo con ordine.
Quando ero bambino, per anni mio padre ha puntato sulla ruota di Napoli i numeri della mia data di nascita, otto, due e ottantadue, ma non ha mai vinto niente. Questo è un aneddoto che racconto spesso. Qualcosa sulla mia infanzia che ho raccontato solo una volta, invece, è che da bambino ho subìto delle molestie nell’istituto religioso Nostra Signora del Rosario, oggi chiuso, grazie a Dio. L’ho rivelato in un’intervista realizzata in Uruguay qualche anno fa, e l’ho trasformato in materiale narrativo per la storia di un guardiano notturno che realizza il sogno di aprire una biblioteca per bambini orfani e abbandonati. Tema che ho ripreso anche in un altro romanzo, ambientato a Napoli, un libro che ruota intorno al concetto di ereditarietà della colpa.
Ho iniziato a lavorare con le parole seguendo mio padre nelle redazioni dei giornali della mia città. Mio padre scriveva solo con gli indici, il rumore di quelle prime tastiere semi automatiche risuona ancora nella testa ogni volta che mi siedo alla scrivania. Mia madre invece scriveva poesie, e leggeva soprattutto narrativa. È stata lei a trasmettermi l’amore per i libri.
Mio nonno era soprannominato lo scopritore d’America, emigrante in Venezuela, il paese in cui è nata mia madre. Ho ereditato numerosi libri in lingua originale, dalla famiglia di mia madre. Se li sono portati dietro in grossi bauli di legno, negli anni ‘50, a quei tempi viaggiavano in navi da guerra riadattate per i passeggeri. Da bambino giocavo a riscrivere il finale dei romanzi, leggevo le versioni in spagnolo o in francese e poi quella in italiano. Mi piaceva perdermi nelle infinite sfumature linguistiche che potevano rendere una stessa immagine.
Così, giovanissimo, ho incominciato a rifugiarmi nella lettura; leggevo le storie degli altri perché non mi piaceva la mia, con l’innocente illusione di poterne fuggire. Mi procuravo romanzi di autori stranieri anche nel mercato di Resina, a Ercolano. Era un posto enorme, soprattutto per un bambino, potevo rimanerci per giornate intere. Ricordo che arrivavano queste balle enormi, piene di vecchi vestiti usati. All’interno dei vestiti, giacche e soprabiti tedeschi, uniformi americane, francesi, inglesi, si potevano trovare oggetti di qualunque genere, orologi, cartoline, penne stilografiche, occhiali, di proprietà di chi aveva indossato quegli abiti, inconsapevole che un giorno una massa informe di ragazzini li avrebbe ispezionati. Con l’avidità degli affamati ce li passavamo sulle nostre teste; gli altri cercavano soldi, io cercavo libri.
A volte, dentro le tasche dei vestiti c’erano vecchi libri consumati, me ne appropriavo senza dovermeli contendere, era roba che si vendeva raramente, te li tiravano dietro per pochi spiccioli. Ero piccolo e sporco, passavo inosservato tra i banchi dei venditori che cantavano come galli, inventavano canzoni per attirare i clienti o per le belle ragazze che passavano. La donna era musa ispiratrice, pilastro portante di quella società. Portavo con me un sacchetto di tela rubato alle suore e lo riempivo con tutto quello che riuscivo a caricare sulle spalle: mi innamoravo delle copertine, come quelle vecchie copertine senza disegni delle primissime edizioni Molinard, prima ancora di conoscere il contenuto, ne sentivo il sapore e l’odore. Per me, leggere è stata dapprima un’attività fisica, il peso di quelle buste rubate nell’istituto era insopportabile, eppure nessuno mi obbligava a farlo, decidevo di testa mia; poi, è diventata un’attività mentale, non solo ho imparato a leggere, ma a farlo in varie lingue, bastava trovare lo stesso romanzo anche in italiano e fare il confronto pagina per pagina, frase per frase.
Di quando ho lasciato l’Italia
Appena compiuti diciott’anni sono partito, prima la Francia, poi Maracaibo, alla ricerca del ristorante di mio nonno, il Bello de Oro, e poi negli Stati Uniti, dentro e fuori dal confine ogni tre mesi, era come una giostra, il mio gioco con le istituzioni. Tra un viaggio e l’altro mi sono laureato, una laurea inutile in Lingue e Letterature Straniere, con una tesi sulla follia nella letteratura fantastica. Insomma, questi personaggi sono pazzi oppure no, mi chiese il relatore. Erano folli, non pazzi, gli risposi. Mi diede un voto di merda e mi mandò a casa scuotendo la testa. Lei si esprime come un bambino di dieci anni, nella sua vita non otterrà mai nulla, se lo ricordi, mi disse così.
Dopo gli studi, mi sono stabilito a Nizza, nel sud della Francia, dove ho iniziato a dedicarmi alla fotografia. Perché vuole fare il fotografo se è uno scrittore? mi chiese il commesso che mi stava mostrando le macchine. Proprio per fare lo scrittore, gli risposi, non so se è chiaro. No, per niente, rispose lui. Realizzavo ritratti, catturavo il volto delle persone per strada perché mi sentivo solo. Ho esposto in varie gallerie e caffè, tra cui il Museaavv e il Virgin Café, col Club Artisti franco italiano, coordinato da una pianista ferrarese, Beatrice, una donna da cui ho imparato la grazia. Non ho venduto neanche una foto, dimenticavo di lasciare i miei recapiti e quando qualcuno chiedeva informazioni, gli organizzatori non sapevano come rispondere; anzi, un giorno ho messo tutti i pannelli in macchina e li ho lasciati nei vari bar che conoscevo. Conducevo una vita alquanto travagliata in quel periodo, in altre parole non avevo una lira, gli ultimi giorni del mese mangiavo solo pane e marmellata. Ma forse proprio per questo motivo ho iniziato a dedicarmi alle mie storie con sempre più rigore. A casa, a Nizza, avevo una stampante laser che era una bomba, avevo messo su una vera tipografia, con il filo di lino e la macchina perforatrice, inviavo i manoscritti rilegati in Italia ed era come tornarci un pezzetto per volta, in Italia. Mettevo le buste su uno di quei carrelli per la spesa, strappavo via il sacco, lasciavo solo lo scheletro di ferro e ci legavo intorno i pacchi. Poi partivo per il bureau de poste e mi mettevo in fila con le vecchiette che avevano lo stesso carrellino e mi guardavano compiaciute. La maggior parte dei plichi però andava smarrita e smembrata, e ritornava al mittente dopo mesi e mesi. Spedivo con la tariffa livres-brochures, che esiste per promuovere la lettura; dopo anni ho scoperto che funziona soltanto per i testi in lingua francese.
All’improvviso mollai tutto e partii per Siviglia, mi ero innamorato di una ragazza incontrata in hotel, Maria. È stato allora che ho scoperto la mia pericolosa passione per l’ignoto, e ho capito che qualsiasi decisione importante, l’avrei presa con una donna al mio fianco. Siviglia, la città del sangue e dell’oro, un luogo di forte ispirazione per uno scrittore come lo ero io, affamato di vita. E neanche a dirlo, è finito tutto in un romanzo.
Da lì, mi sono trasferito ad Alicante, sulla costa opposta, dove ho fondato la Cisne Foto Creation, uno studio fotografico, insieme a Francisco Fuentes, in arte Paco, un fotografo strabico di Lorca, e un vecchio attore di teatro italiano, divenuti i protagonisti del romanzo più matto che io abbia scritto.
Vivevo nello studio, un loft in Calle Virgen del Socorro, sulla Playa del Postiguet, dormivo sul divanetto della sala d’attesa, corto e duro. Nel lavandino, ci costruii un acquario con gli alberelli tropicali. Il proprietario era morto senza eredi, e il condominio usava quello spazio per le riunioni prima di decidere di metterlo in affitto. Il tale aveva vissuto gran parte della sua vita su una sedia a rotelle, aveva fatto allargare la porta del bagno, l’unica porta, e si era ricreato questo spazio così ampio, in cui io a mia volta ho potuto installare teli, faretti e tutto il necessario per lavorare. Una notte mi venne anche in sogno; si è seduto accanto a me e mi ha raccontato la sua storia… Per pagare l’affitto e le attrezzature, lavoravo come controllore di volo in aeroporto, si iniziava alle quattro del mattino, odiavo quel lavoro, soprattutto il rumore forte dei motori, ma quando non mi davano voli ne sentivo la nostalgia.
Dopo un paio d’anni in Spagna, sono partito a bordo di una nave da crociera come addetto al servizio clienti, avevo bisogno di sapere cosa si prova e costruirci un personaggio. Vivere in nave è stata un’esperienza molto importante per la mia narrativa, mi ha insegnato a sapermi orientare e a scrivere solo l’essenziale, perché non avevo tempo, il ritmo di lavoro era molto duro. Durante il secondo imbarco, sono stato costretto a sbarcare d’urgenza e sono stato operato nell’ospedale di Pirgos, in Grecia. Il chirurgo, un uomo alto, coi capelli bianchissimi, quando mi ha visto mi ha detto: tu, nella tua pancia, grande caos. Appena rimpatriato, mi sono imbarcato di nuovo come allievo ufficiale su una nave traghetto che faceva linea tra Nizza, Marsiglia e Bastia. La puzza del gas di scarico delle auto imbarcate al ponte meno uno arrivava fino alla hall, era rivoltante. Ho descritto un po’ di queste esperienze in una serie di racconti brevi, apparsi su riviste letterarie italiane e francesi, più tardi raccolti in volume.
Ho vissuto per un annetto a Wiesbaden, in Germania, dove stavo per aprire una gelateria italiana, volevo fare gelati con la ricetta segreta di mio nonno. Stavo anche per sposarmi laggiù; Johanna è stata forse l’unica donna ad amarmi così tanto da lasciarmi volare via, come diceva lei…
Dunque, partii di nuovo. Amavo il mare, così ho chiesto un visto di cinque anni per lavorare negli Stati Uniti, nel settore marittimo e portuale. Ma una volta lì, ho svolto in nero i lavori più disparati, tra cui il cartello umano, il lavapiatti e l’autista di un anziano poeta cieco. In un libro, ho ritratto la figura del vecchio poeta e marinaio Pancrazio Farabosc, che fugge da una casa di cura per anziani il giorno del suo ottantaseiesimo compleanno.
Di ritorno a Nizza – per me divenuta una città-madre – ho continuato a cambiare lavoro di continuo, cercando nella vita l’ispirazione per i miei libri, se non il contrario. Ho insegnato italiano in piccole scuole private, ma più spesso ho fatto il guardiano notturno, perché mi permetteva di vivere due vite parallele e continuare a seguire la mia infruttuosa vocazione. Per me, la notte è diventata una sorta di sfida. In un’intervista per La Voce di New York, ho detto che quella del veilleur de nuit è una vita di resistenza; restare sveglio mentre gli altri dormono è l’unico vero potere che un uomo ha. Non ricordo quanti altri lavori ho fatto, forse un centinaio, tutti molto diversi tra loro, il mio era un continuo bisogno di sperimentare per scrivere. Il mio indirizzo era in rue de Foresta, alle spalle del Vieux Port, in uno degli antichi edifici sopravvissuti alle demolizioni per la linea del tram. Una stradina dalla forte potenza alchemica. L’appartamentino, con una scala a chiocciola strettissima e una terrazza da cui s’intravedevano i moli, era appartenuto al custode degli uffici della dogana, l’ho descritto in racconti scritti sotto vari pseudonimi. Scrivevo per ore e ore nelle brasserie e bevevo decine di pastis al giorno; infatti, il ricordo di quegli anni è un po’ annebbiato… Il gestore del Café Sully, in Place Garibaldi, don Emilio il torinese, detto la Gazza ladra, allestì un tavolino per me in un angolo con un abat-jour e dei libri. Io l’ho ringraziato nell’unico modo possibile: trasformandolo in un personaggio di uno dei miei romanzi nizzardi.
Sulla Revista de la Biblioteca Nacional de Uruguay, apparve in quel periodo un racconto ispirato al mio incontro con José Mujica: un vecchio e un giovane conversano sull’importanza del proprio tempo e l’amore per le piccole cose. Per scriverlo, ho trascorso diversi mesi a Montevideo, in attesa di incontrare il presidente povero. L’editore pugliese Cosimo Lupo e Ada Fiore, sindaca di Corigliano d’Otranto, il paese della filosofia, hanno pagato il mio viaggio di andata. Stavo in Calle Susana Pintos, con una famiglia incontrata sul posto; la domenica giocavo a softball con un gruppo di venezuelani nel Parque Rivera, cucinavamo la lasagna. Molti bambini non avevano mai provato l’olio di oliva prima che glielo mostrassi. È stato un periodo molto intenso per la mia scrittura, non avevo distrazioni, mi svegliavo prestissimo e lavoravo fino a tarda mattinata, poi uscivo, camminavo per ore tra il Barrio Sur, Palermo e altri posti pieni di contraddizioni, negozi prestigiosi e materassi sui marciapiedi. Oltre a intervistare el Pepe, ho scoperto la realtà dei cantegriles e la povertà in cui vivevano centinaia di bambini. Il racconto ne è diventato una testimonianza. Massimo Beccarelli, su L’Espresso, lo descriveva come un libro che non dovrebbe mancare nella biblioteca ideale delle nuove generazioni.
Rientrato in Francia, ho auto tradotto il testo in italiano e in inglese, e in una scuola di lingue nel palazzo del Majestic ho incontrato Félicia. Con lei, ho fondato Articoli Liberi, un’associazione culturale nata per donare libri in varie lingue a bambini che vivono realtà difficili, o in povertà. Félicia viveva in un appartamento dalle parti di Valrose, di proprietà di una certa Madame Petite. La prima volta che ho schiacciato il campanello, ho letto il nome della vecchia proprietaria e mi sono messo a ridere, e quando lei ha aperto la porta ha incominciato a ridere insieme a me. Félicia ha iniziato la traduzione i miei romanzi in francese. Ci incontravamo nel bar della Fnac, ci passavamo pomeriggi interi lassù a guardare le persone piccole piccole che correvano con gli ombrelli in mano davanti alla cattedrale. Abbiamo lavorato alla versione francese della storia di Antonino Bellofiore, goffo poliziotto nizzardo, e della sua compagna, Anisetta, indecisa ma lungimirante. Abbiamo collaborato con altri autori che hanno aderito all’associazione, e con illustratori di fama internazionale, come Cristina Troufa, Gary Taxali, Fernando Cobelo, e Sarah Jarrett.
Nel dicembre dell’anno successivo, in Comune, a Nizza, mi sono sposato. Eleonora era un’artista romana, creatrice di bijoux, ci eravamo conosciuti in nave, per tre mesi avevamo condiviso una cuccetta di sessanta centimetri di larghezza, un test sufficiente per decidere di passare il resto della nostra vita nella stessa casa; almeno, così credevamo…
Dopo sei mesi, sono partito per gli Stati Uniti. Stavolta con una Visa universitaria che mi ha permesso di prendere parte a un programma di Teaching Assistantship della Florida State University, grazie a Irene Zanini Cordi, la direttrice del Dipartimento di Italian Studies, che aveva scoperto un mio romanzo per puro caso, durante un corso di francese, ad Antibes.
In Florida, ho approfondito i miei studi di cultura italiana e ho dato a mia volta corsi di lingua. Ho anche tenuto presentazioni e conferenze, come previsto dal programma. Durante una di queste, a Jacksonville, ho incontrato Giada Biasetti, Associate Professor dell’Augusta University. La prima volta che ci siamo visti, lei veniva verso di me sotto una specie di gazebo, portava i tacchi, era sempre molto elegante. Tra i vari progetti, abbiamo curato la traduzione in inglese di un mio romanzo, e un articolo accademico scritto a quattro mani, sulla traduzione letteraria da una lingua romanza verso l’inglese, intitolato How do we Translate Emotions. Ho organizzato altre conferenze nelle università per diffondere il racconto su Mujica. Si prospettava un periodo fecondo per la mia carriera, come la chiamano gli altri, ma ho rinunciato ai progetti negli U.S.A. e sono tornato in Europa. Stava per nascere Matilda… Eleonora mi aveva raggiunto negli Stati Uniti e avevamo passato un bel periodo insieme, lei vendeva le sue collane col passaparola, avevamo una Buick enorme, comprata per 1.000 dollari, comoda come un divano, io scrivevo tantissimo e giocavo a baseball dopo tanti anni a Nizza, dove avevo dovuto sopportare termini tradotti in francese, come retiré al posto di out, o les chiens per gli outfields. Vivevamo in una di quelle tipiche case coloniali, nella parte bianca della città, e ancora non riesco ad accettare che a pochi metri iniziasse la parte nera, e le due aree fossero così nettamente separate.
Un mio libro intanto era stato adottato in un corso di Letteratura Italiana Contemporanea, presso la Florida State, insieme a romanzi di Erri De Luca e Massimo Carlotto; quest’ultimo aveva lanciato la rubrica Spazio Giovani su Nuova Antologia, in cui era apparso un testo su di me. E un capitolo dello stesso libro era stato inserito in una raccolta collettiva, nata per denunciare la violenza di genere.
Dopo l’arrivo di Matilda, stavamo in un appartamento al primo piano, in rue Offenbach, vicino alla Gare di Nice Ville; nel cortile interno c’erano le piante rampicanti e tra i tetti si vedeva un pezzetto di cielo. Lì ho scritto la storia di Gio Marealto, ambientata a Parigi, un romanzo sulla maternità, molto duro, dalle tinte noir. Nello stesso anno ho lavorato a un testo molto diverso, un romanzo storico, nato quando ero a Tallahassee, in Florida, dove avevo seguito un seminario sui Gender Studies. Era la storia di Camilla Faà Gonzaga, tratta dal primo racconto autobiografico di una donna italiana, riscritto in prima persona in una versione ampliata e romanzata. Mi sono immedesimato in questa ragazza nata quattro secoli fa, che ha avuto il coraggio di denunciare un’intera società misogina e maschilista con l’unica arma che aveva a disposizione: la verità della parola scritta.
Ho tradotto vari libri dal francese, dall’inglese e dallo spagnolo; il più importante è il racconto di una donna uruguayana, una testimonianza toccante sulla violenza di genere. Ne ho curato anche l’editing e l’edizione italiana, con una prefazione di Marta Occhipinti, giornalista de La Repubblica. Ho convinto l’autrice a usare il vero nome del suo aggressore per trasmettere alle lettrici il coraggio della denuncia. Lo abbiamo presentato insieme nell’Istituto di cultura italiana, a Montevideo. Mi sono occupato ancora di violenza di genere in vari articoli, poi ho smesso di scrivere su questo argomento.
Di quando sono sparito dalla scena del mondo
Il mio desiderio – che è andato via via crescendo – era quello di sparire, nascondermi dalla scena del mondo, come diceva Camilla, lavorare in silenzio con la sola compagnia dei libri. Prima di capirlo, però, mi sono lasciato distrarre dai tanti eventi e dalle tantissime persone che ho incrociato sul mio cammino. Sono stato persino ospite a salotti come Salerno Letteratura, invitato da Francesco Durante, uno scrittore del quale conservo un prezioso ricordo; poi Firenze RiVista; il Writers Weekend di Augusta; il Festival della Letteratura Italiana di Bordeaux, insieme a Paolo Di Paolo. E mentre altri autori si facevano scattare foto in primo piano che i loro agenti postavano in tempo reale sui social network, io mi godevo la passione e l’avventura che venivano dopo la conferenza. Non mi presentavo mai con lo stesso nome a due persone diverse.
Ho continuato a lavorare ancora un po’ col Dipartimento di Lingue dell’Augusta University, e con la P.R.A. Publishing di Lucinda Clark, per la diffusione gratuita di libri nei quartieri poveri della Georgia e South Carolina. Ho stampato a spese mie migliaia di copie per spedirle a scuole e associazioni per l’infanzia, fino in Nicaragua. Poi ho tagliato le varie collaborazioni e ho vissuto diversi anni in un paesino al confine con la Svizzera, lavoravo da frontaliere a Ginevra, e dopo qui ad Annecy, dedicandomi con tutto me stesso alla mia bambina, alla quale un giorno lascerò questa grande – e con ogni probabilità, inutile – biblioteca.
Ho raggiunto poche conclusioni a questo punto della mia vita. Una di queste è che nessuno, neanche chi ti ama, è capace di dirti qual è la cosa giusta da scrivere. Perché scrivere è un lavoro che ti obbliga a cercare le certezze solo nelle tue mani; le mani degli altri possono servire a tante altre belle cose, ma non a questo.
I miei romanzi celebrano antieroi, individui marginali che cercano il proprio posto in società a dir poco distopiche. E come nei romanzi di Michele Prisco, il motivo di fondo è sempre l’infanzia (Questo, non l’ho detto io). Gli studenti dell’Augusta University hanno tradotto un mio libro in portoghese, e un capitolo in spagnolo, illustrato da Fernando Cobelo. Abbiamo stampato anche la versione in inglese, con una copertina firmata da Gary Taxali, e due romanzi di Aldo Amabile, che non sono io, anche se alcuni colleghi lo hanno pensato.
Il mio legame con l’Italia è diventato col tempo un legame di tipo linguistico. A volte ho l’impressione di vivere nella lingua, che investigo e trasformo ogni volta in maniera diversa. Scrivo storie perché non saprei cos’altro fare, perché mi fa sentire a casa, e perché è così che mi hanno insegnato ad amare. Sono cresciuto in una città di narratori; a Napoli tutto è racconto, ciò che accade e ciò che potrebbe accadere. Qualsiasi fatto, anche il più banale e quotidiano, diventa una storia. È come se raccontare la vita la rendesse più affascinante, la allungasse. La vita letteraria, a Napoli, inizia prima delle parole e va oltre la morte. La allontana. Abbiamo inventato persino il libro dei numeri, la Smorfia, migliaia di combinazioni tra immagini e numeri che rappresentano l’intero scibile umano. 1, l’Italia, inizia così.
Di quando ho fondato la rivista
Dopo la morte di mia madre a causa del Covid, ho ampliato il progetto dell’associazione e ho fondato Articoli Liberi – Rivista di culture e letterature. Se lei non fosse morta, questa rivista non esisterebbe. Mia madre veniva a trovarmi in Francia un paio di volte all’anno, soprattutto dopo l’arrivo di mia figlia, e non c’era mai il tempo sufficiente per approfondire questioni importanti. Discutevamo spesso di quanto infruttuoso e sottovalutato fosse il lavoro di uno scrittore e lei era d’accordo con me su un punto essenziale: la coerenza. Questo mi ha dato la spinta a non rinunciare e a rimanere onesto, con coraggio, come aveva fatto lei seguendo la sua vocazione di medico senza mai tradirla. Dopo aver appreso della sua malattia, abbiamo affrontato tutto ciò che era rimasto in sospeso in tanti anni di lontananza. Mia madre era un’appassionata di poesia, ne leggeva e ne scriveva moltissime, ma in segreto, non ce lo aveva mai detto; solo dopo ho capito. È stata lei a darmi l’idea della rivista, come naturale compendio dei miei sforzi e dei legami profondi che, proprio grazie alla mia attività, si sono andati consolidando nel tempo.
Articoli Liberi è dedicata agli italiani all’estero, si prefigge come scopo la traduzione in lingua italiana di opere di varie lingue, e la scoperta di nuove voci. Abbiamo ospitato Janice Galloway, Marie Gauthier, Chad Norman, Ana Castillo, Sandro Bonvissuto, Elisa Ruotolo, e molti altri. Lo slogan che accompagna il nostro lavoro è fare cultura nel senso più alto del termine: creandola. La rivista si pone come un noi e voi, ed è rivolta ai lettori, senza passare per alcun intermediario.
Io mi occupo dell’editing e delle traduzioni dal francese, dallo spagnolo e dall’inglese; curo i dettagli della versione web e cartacea, dalla concezione della grafica all’impaginazione finale. Subhaga Gaetano Failla mi aiuta in vari aspetti di questo progetto; mentre Debora Vitulano mi accompagna nel lavoro di comunicazione e si occupa delle traduzioni dal russo. Anche altre traduttrici, come Luisa Campedelli, Linda Del Sarto, Marilena Rea, Alessia Sparaco e Selenia Amato, hanno collaborato con la rivista.
Credo che in un’epoca in cui il sapere è delegato alle macchine, e ci sentiamo quasi di troppo se osiamo formulare un pensiero originale, leggere testi letterari sia un atto rivoluzionario. La poesia, il racconto, quella parola che fa male e poi lenisce, che spiazza e poi conforta, è rimasta forse l’unica forma di narrazione spontanea in un mondo che è sprofondato nell’assoluta incertezza.
Di quando ho riscritto il mio primo libro
Di recente, i diritti del racconto su Mujica sono stati acquistati da un editore portoghese, che vuole diffonderlo con lo scopo di farne un film.
Ho scritto altri tre romanzi, in tutto saranno una ventina; ho volutamente omesso i titoli perché credo che l’autopromozione sia qualcosa di indignitoso[1].
Il mio primo libro è risorto dopo quasi vent’anni dalla sua prima stesura, grazie all’editing di Luisa e un’introduzione di Debora; è narrato dall’autore di un romanzo, che parte alla ricerca del finale e intanto scrive i vari capitoli. Sua moglie, il suo editore, le suore del convento in cui viene rinchiuso, tutti sanno che qualsiasi azione, qualsiasi parola potrebbe diventare il prossimo paragrafo, la prossima scena, forse il finale tanto atteso…
Su Storie All Write, lo descrissero così: Il racconto di chi ha colto il contrasto insanabile che oppone da sempre scrittura e vita, parola e impulso; ne emerge un quadro disarmante: lo scrittore è una persona vigliacca, opportunista e sacrificata al gioco continuo della forma e della trama, in una sorta di sperimentazione sulla propria pelle, un individuo destinato alla perpetua insoddisfazione.
Avevo ventiquattro anni, l’unica recensione che ho ritagliato e conservato.
[1] In privato è disponibile la documentazione a supporto di quanto raccontato: foto, certificati, contratti, link, ecc.
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