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Articoli & Approfondimenti

Dal mito della Dea Madre al paradosso social-politico

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di Francesco Roat

 

I più recenti studi archeo-mitologici fanno ritenere che circa tra il 7000 e il 3500 a.C., quantomeno in varie parti d’Europa, sia esistita una società detta gilanica ‒ dal greco gyné (donna) + lyo (liberare) ‒, che non equivaleva esattamente al matriarcato (Mutterrecht) descritto a suo tempo da Bachofen, ma era comunque presente in ambiti umani dove non tanto comandavano le donne bensì presso le quali era diffusa un’impostazione matrilineare e matrifocale, per cui il femminile veniva considerato di importanza fondamentale. Ercole De Angelis, nel suo ultimo saggio, analizza in modo approfondito e puntale tale remotissimo sistema sociale, in cui, va sottolineato per evitare equivoci, vi era un equilibrato livello nella distribuzione di compiti e ruoli, grazie ad una equipollenza dei sessi: “in un clima di totale assenza di gerarchie e di strutture autoritarie, perché basato sul libero accordo e sulla cooperazione solidale dei suoi membri”.

Un mondo ideale, modello di perfezione, dunque? Non esageriamo, avverte sin dalle prime pagine l’autore. Esso era piuttosto caratterizzato da un diffuso modo di porsi interpersonale generalmente pacifico e collaborativo. Approfondire tuttavia le relazioni che intercorrevano allora tra uomini e donne ed il regime di vita comunitaria all’insegna del mutuo consenso e della reciprocità del dono ci consente però di: “desumere qualche utile insegnamento da chi, anteponendo una logica di servizio alla logica di dominio, ci ha preceduto nell’avventura terrestre”; benché, precisa/ammette De Angelis, riguardante: “tempi assai remoti e impenetrabili”. Certo è che, prima del patriarcato maschilista, nell’età gilanica l’esser donna era ritenuto di fondamentale importanza e funzione, non fosse altro perché le femmine erano in grado di ri-creare la vita, tramite la filiazione.

L’idea di paternità, infatti, non era ancora entrata a far parte di quella cultura arcaica, in cui invece ogni madre era soggetto estremamente autorevole (più che autoritario) e in cui la figura religiosa principale non era un Dio ultraterreno declinato al maschile ma una Dea: espressione della vita presente sulla terra, della fecondità, della natura animata. Presso le società gilaniche la struttura organizzativa era così diretta secondo la discendenza matrilineare ‒ scrive ancora De Angelis ‒ entro i vari clan nei quali una singola tribù veniva ad esser suddivisa: “ciascuna con al vertice una madre capostipite fondatrice”. Va precisato che si trattava quasi sempre di minuscole collettività umane, in cui era vivissimo quello che si potrebbe indicare come un sentimento generale della vita e della interdipendenza tra esseri umani e non-umani. E, conseguentemente, nelle credenze primitive dominava giusto la presenza di una Dea madre, in cui: “l’intero mondo della vita trova la sua più alta trasposizione simbolica”.

Ma ben (troppo) presto, nella tarda fase del neolitico, ondate migratorie di aggressivi pastori nomadi invadono i territori agricoli gilanici e la loro cultura aggressivo-predatoria e maschile si impone su quella relativamente pacifica e femminile, soppiantandola. Inizia così il patriarcato, destinato sino ad oggi a non concludersi ancora, per quanto esso mostri evidenti segni di crisi. Quindi al periodo del mytos (la parola autorevole, dei racconti ancestrali, tramandata oralmente) si sostituisce quello del logos (la parola della razionalità, della scrittura, della presunzione di tutto sapere/dominare). E l’intuizione ‒ femminile ‒ cede il passo alla filosofia ‒ maschile ‒, ad un paradigma dove non vige più il rispetto della natura e l’utilizzo equilibrato delle sue risorse, ma il suo sfruttamento sempre più esteso/invasivo. La terra non è più un bene comune ma diviene proprietà: privata soprattutto.

Non si tratta di idealizzare l’epoca gilanica o di farne un’utopia, né di augurarsi – come ha fatto un certo femminismo estremistico ‒ la stolida messa al bando (o il rifiuto) degli uomini, auspicando un predominio/ritorno di potere al femminile, che finirebbe per equivalere a quello maschile se non mutano i valori, gli indirizzi di fondo esistenziali e fattuali del singolo come delle comunità. Panta rei, tutto scorre direbbe inoltre Eraclito e la postmodernità è del tutto altra rispetto alla preistoria. Resta che indagare quanto più correttamente possibile il matriarcato è impresa culturale utile soprattutto al fine di meglio comprendere quello che, secondo Edgar Morin, non deve più venir chiamato homo sapiens ma homo demens. E De Angelis lo fa con finezza critica, documentazione accurata e vivacità espressiva ammirevoli. Si tratta insomma, a mio avviso, di un libro esemplare, da leggere tutti.

Ercole De Angelis, Dal mito della Dea Madre al paradosso social-politico, NeP edizioni, 2014, pp. 300, euro 18,00

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