Lo Zibaldone
Con Camilleri sulla giostra della vita
Corre veloce il treno della vita. Vi saliamo, prendiamo posto e pretendiamo che corra velocissimo per portarci sempre avanti. Ci interessa sentire solo il suo ritmo regolare sulle rotaie, il suo avanzare inesorabile.
Siamo partiti da stazioni diverse portando con noi soltanto una valigia un po’ vecchia che contiene tutto il nostro passato. È un peso, una cosa fastidiosa della quale quasi vergognarsi. Come se il suo contenuto non ci appartenesse. Non riusciamo neppure a guardarla e la lasciamo chiusa in un angolo con il suo contenuto segreto.
Viaggiamo velocemente e fermandoci poco, ascoltiamo frammenti e non tutto, scriviamo nei telefoni, non ci sposiamo per sempre, guardiamo il cinema senza entrare nei cinema, ascoltiamo letture in rete senza più leggere libri e tutto questo andare senza radici e senza peso genera tuttavia una vita che appare sensata e bella (Alessandro Baricco, Nel 2026 la vittoria dei barbari, in la Repubblica, 26 agosto 2010).
Per anni, abbiamo annullato abitudini, tradizioni, svuotato paesi, abbandonato campagne, tagliato boschi, inquinato l’aria, cementificato i litorali del mare. È l’ossessione del progresso che ci ha sempre portato a fare il passo più lungo della gamba. Per lunghi anni abbiamo corso dietro al richiamo frenetico della civiltà industriale.
Mentre altri continuano a salire sul treno noi ci fermiamo. Lassù, su quel convoglio, c’è sempre posto per l’utopia e per la speranza ed è incredibile quanto ancora enorme sia il numero di umanità che fugge dal disagio e viaggia verso il territorio dei desideri.
Noi ci fermiamo a riflettere e a goderci la concretezza del presente. Apriamo la valigia che nel nostro viaggio ci siamo portata dietro e prendiamo coscienza dei sogni e delle ferite segrete che vi avevamo chiuso dentro, e la esploriamo pazientemente. Queste inquietudini e questi affanni, queste attese e questi sogni e i ricordi sono talmente intensi che potrebbero ispirarci un romanzo. Con pagine di vita e di luoghi.
C’era un’intera isola, con la sua atmosfera e la sua storia e la voglia di raccontarla, dentro la valigia (tenuta serrata per anni) di quell’uomo sapiente, che non era ancora lo scrittore celebrato dalle classifiche dei libri più venduti. Il suo viaggio era stato lungo. La Freccia del Sud, il treno che aveva già svuotato il Meridione, aveva percorso la Sicilia, mentre il suo sguardo ancora giovane indugiava sui luoghi che un giorno avrebbe raccontato. Sui mulini a vento delle saline, sui bagli prigionieri dei boschi di carrubi, sulle spianate di ulivi, di mandorli e di agrumi (esuberanti e lucenti come nei quadri di Guttuso) racchiusi dai muretti a secco in pietra bianca, sui vigneti fecondi d’uva che sarebbe diventata un buon vino Zibibbo e Nero d’Avola, sui resti archeologici del passaggio di greci, romani, arabi e normanni, su un falco pellegrino naufrago nel vento, sulla Madonna nera in cima all’acropoli di Tindari, e poi, attraversando lo Stretto di Messina, sui fuochi dei carbonai dell’Aspromonte che all’orizzonte si confondevano con le stelle del cielo di Calabria. Mentre si perdevano lontani i profumi di zolfo e di gelsomino.
A Roma, fece programmi quando la televisione era colta, e anche cinema e teatro. Lui, il futuro scrittore, frequentò per lungo tempo il tenente Sheridan e il commissario Maigret ma anche Eduardo De Filippo, che recitava in una lingua mischiata di italiano e napoletano stretto. È lì, lo afferma lui stesso, che ha imparato il mestiere di scrivere gialli e, forse, con Eduardo ha percepito l’efficacia letteraria della convivenza del dialetto con l’italiano.
Al momento di abbandonare il lavoro in Rai, per sopraggiunti limiti di età e con un consuntivo di 1300 regie radiofoniche, 120 teatrali, 80 televisive, è certamente appagato ma ha ancora tanta voglia di misurarsi con il mondo. E, sulla soglia della terza età, al giro di boa (che sarà il titolo di un suo libro del 2003), la sua smania di scrittura, accantonata per anni, prende il sopravvento. Ma il suo primo romanzo Il corso delle cose venne rifiutato da una decina di editori e usci da Lalli che stampava libri a pagamento, ma per quella volta fece un’eccezione. Del secondo romanzo Un filo di fumo si accorse Livio Garzanti. A quel punto nasce lo scrittore, l’Andrea Camilleri che invaderà gli scaffali delle librerie d’Italia e di molti altri Paesi. È questo il Camilleri che ho imparato a conoscere.
Ricordo la prima immagine mentre si affaccia alla letteratura taliando attraverso una persiana blu appena socchiusa. Mi è piaciuta la sua bella faccia serena, lo sguardo di chi la sa lunga, che supera le lenti dei grandi occhiali per raggiungerti indagatore.
Poi l’incontrai a margine di un evento letterario in Rai. Maestro? Non ho nulla da insegnare, chiamami Sommo, se vuoi. Lo ricordo mentre scorre pagine di libri da poco arrivati sui tavoli della libreria Il seme di Lucia Re, nel quartiere Prati a Roma. Lui sfoglia le pagine e io mi estraneo: lo vedo seduto al bar di Porto Empedocle, con un bicchiere di birra e una sigaretta tra le dita (dice di fumare come dieci turchi messi insieme), a raccontare e ascoltare storie inesauribili tra amici. Io sono proprio lì e mentre tendo l’orecchio vorrei chiedere al picciotto del bar di portarmi una granita di mandorla o di pistacchio. Ma non oso interrompere.
Da Vigàta, non lontano da Montelusa, luoghi immaginari e reali, un paese di terra e di mare, siamo pronti per il nostro viaggio in un territorio noto e sconosciuto, giovane e millenario, fatto di contrasti violenti, brutale e innocente, di buio e di luce, di passione e di rassegnazione, di antiche dimore baronali dai profili barocchi, di balconi che ricordano Siviglia, di bagli contadini di delicata armonia, di cupole arabe e normanne, di fornaci per fabbricare giare, di paesaggi assolati e generosi di una bellezza letteraria. Oltre Vigàta, verso il lido di Marinella, verso le spiagge candide di pomice o nere di lava, lambite da un mare verde, turchese e poi cobalto. E ancora oltre, verso la falesia bianca della Scala dei Turchi, scolpita dallo scirocco e dal maestrale.
Una pellegrinazione mentale per incontrare personaggi prestati ai plot dei romanzi. Non occorre prendere la littorina, il treno a scartamento ridotto che si partiva dalla stazione nica-nica e che portava gli studenti pendolari al liceo classico “Empedocle” di Agrigento, la scuola che era stata di Pirandello e di Sciascia e poi di Camilleri, studente-animatore del giornale L’asino che vola, e di altri. Su quel treno lentissimo, il cui cammino era talvolta interrotto da qualche vacca addormentata tra le rotaie, i passeggeri erano sempre gli stessi. Fatta cizzione degli studenti che s’arripassavano le lezioni e delle maestre e dei maestri che avivano il giornale, gli altri passeggeri non erano gente di lettura e passavano il tempo del viaggio o chiacchiarianno o jocando a carte, scopa, trissette e briscola (Il casellante, 2008). Gli altri stanno in paese, circolano per le strade e poi si trasferiscono prepotentemente sulle pagine dei romanzi, forzando la volontà dell’autore, e diventano protagonisti di narrazioni ambientate in luoghi familiari. Personaggi storici e moderni, ironici, spesso divertenti e talvolta malinconici, Zosimo “re di Girgenti”, Nenè, Gnazio Manisco, Maruzza Musumeci, Febo Germosino, Nino Zarcuto, don Pitrino Vadalà, Montalbano, Mimì Augello, Fazio, Catarella, Livia, Ingrid, Beba, Adelina, Alfonso e Margherita Griffo, Balduccio Sinagra, l’ingegnere Luparello, il questore Bonetti-Alberighi e… il gatto Ruggero.
Sono totalmente incapace, afferma Camilleri, di inventarmi una storia ambientata in un luogo che non conosco. Uno può anche scrivere un romanzo su una città che conosce attraverso le immagini televisive e quelle guide meravigliose che oggi esistono − non ci sei mai stato ma sai dov’è il tabaccaio. Ma questo non significa che tu sai cosa pensano, come pensano, le persone che in quelle strade camminano. Io conosco, almeno, penso di conoscere (la precisazione è importante), il modo di ragionare, di intendere il mondo, di rapportarsi con gli altri dei miei compaesani. Pecco, nell’ottanta per cento dei casi, di presunzione di avere capito, però per il venti per cento ci indovino. Quel venti per cento mi serve per scrivere dei libri.
Finzione e autenticità si rincorrono e si intrecciano talmente tanto che il mondo fantastico di uno scrittore diventa la sua realtà. Camilleri dove avrà incontrato il commissario Salvo Montalbano, nella realtà o nel fantastico? Il suo nome è un omaggio allo scrittore spagnolo Manuel Vázquez Montalbán, creatore del detective Pepe Carvalho, personaggio che ha molte cose in comune con il nostro commissario (in particolare il gusto per la buona cucina; tra i piatti preferiti dal commissario Montalbano: pasta ’ncasciata, piatto degno dell’Olimpo nel Cane di terracotta; la caponatina sciavuròsa, colorita, abbondante nella Gita a Tindari; pasta alla Norma, quella con le milinzane fritte e la ricotta salata nel Ladro di merendine)? Un vecchio insegnante del liceo di Agrigento? O quell’altro professore di Cagliari, che l’aveva invitato a chiacchierare con gli studenti? Oppure è effettivamente esistito (come ha affermato lo storico Giuseppe Carlo Marino dell’Università di Palermo, in un contributo a una vecchia edizione del Tg1) un Montalbano commissario di polizia che ha risolto numerosi casi giudiziari complicati coperti da omertà e mistero?Non mi sono ispirato a nessuna persona che conosco, afferma il Sommo Camilleri. È piuttosto un puzzle, ci sono tanti elementi di personaggi veramente esistiti ma il totale risulta di fantasia.
Intanto i cittadini di Porto Empedocle hanno eretto un immaginifico monumento al commissario Montalbano, che ha tanti capelli e grandi baffi (come l’ha immaginato lo scrittore e quindi ben diverso da quello televisivo) e se ne sta appoggiato a un lampione dell’illuminazione pubblica.
Figlio dello stesso puzzle è il professore Pintacuda del Ladro di merendine (1999): è in parte il professore di filosofia al liceo Empedocle di Agrigento, si chiamava Carlo Greca, e in parte Sciascia.
Con Sciascia ha avuto un rapporto di reciproca simpatia. Fu lui a portare il primo manoscritto dello scrittore (La strage dimenticata,1984) a Elvira Sellerio, che Camilleri ancora non conosceva di persona. Lo lesse, gli piacque e con il suo fil di voce gli disse che c’erano troppe parole siciliane. Chissà come reagirà il lettore? Il pubblico reagì con entusiasmo. Non soltanto quello siciliano, al quale la lingua era familiare. Ricordo una cena tra amici, che chiudeva l’estate di molto tempo fa. La serata era, per raccontarla con le parole dello scrittore, proprio tinta, botte di vento arraggiate si alternavano a rapide passate d’acqua tanto malintenzionate che parevano volessero infilzare i tetti. Si chiacchierava. Mi sorprese un commensale di Torino che aveva scoperto il Sommo quando, per me e per tanti altri lettori, era ancora un autore sconosciuto. Mi incuriosì molto la presentazione che ne fece quel conoscente piemontese e l’indomani andai in libreria per procurarmi quel libro, La stagione della caccia (1992). Fu il primo e non smisi più di leggere Camilleri: ne seguirono a decine, molti con la copertina blu scuro in quel formato che Enzo Sellerio inventò (che ancora caratterizza la casa editrice di Palermo) piegando e ripiegando un foglio di 70×100 fino alle dimensioni attuali (12×17) e utilizzando un letteringnuovo. Per la stampa utilizzò la bella carta vergata delle Cartiere Milani di Fabriano (per le pagine di testo) e per la sovraccoperta la carta Ingres Cover. Un gioiello della letteratura ma anche dell’editoria italiana.
Potrei fare una classifica dei libri di Camilleri? Non mi è facile. Tra tutti, preferisco Il re di Girgenti (2001): un cunto di un capopopolo, del famusu avventuroso contadino Zosimo, che nel 1718 divenne re di Girgenti e che, prima di finire sulla forca, regalò un sogno rivoluzionario di dignità ai suoi malmessi sudditi; Il birraio di Preston (1995): intrighi, delitti e tumulti seguiti alla decisione del prefetto Bortuzzi di inaugurare il teatro cittadino con un’opera lirica sconosciuta; Il cane di terracotta (2003): in coda al delitto di mafia, si scopre un omicidio, antico di cinquant’anni, di due giovani amanti trovati abbracciati, nel doppio fondo di una grotta, sorvegliati da un enorme cane di terracotta. Il colore del sole (2007): un diario incredibile scritto da Caravaggio nel periodo trascorso a Malta e in Sicilia. Mi fermo altrimenti li elenco tutti. Un’ultima segnalazione per chi vuole approfondire detti e proverbi del parlare siciliano: Il gioco della mosca (1995). Ma vanno letti L’intermittenza (Mondadori), Una voce di notte (Sellerio) e La caccia al tesoro (Sellerio).
Ha un segreto lo straordinario successo di Camilleri? Ha scritto romanzi che, in un Paese, il nostro, refrattario alla lettura, hanno conquistato d’improvviso milioni di lettori e i vertici delle classifiche dei libri più venduti. Un fenomeno senza precedenti. Ancora oggi tra i top ten troviamo il suo Il cuoco dell’Alcyon (Sellerio). La motivazione del suo “trionfo” l’ha data lo stesso scrittore a Curzio Maltese, in una vecchia intervista andata per radio. È avvenuto che in Italia è sempre mancato un tipo di letteratura medio-alta, che il concetto elitario di cultura ha sempre soffocato e portato alla non considerazione.
Anche se gli esiti di libreria sono da industria lui è un artigiano della letteratura. La “bottega” dove nascono i suoi bestseller è a Roma in un palazzo accanto alla sede di Radio Rai. Ha metodo nel lavoro l’artigiano Camilleri: alle prime luci del giorno, macari se la sera avanti si era corcato col proposito d’arrisbigliarsi un’ora doppo del solito, la sveglia corporale sempre alle sei spaccate sonava, e non c’era verso di cangiarle orario (Il tailleur grigio, 2008), sbarbato, vestito e pettinato, si mette a scrivere per alcune ore e poi, dopo aver sospeso per riprendere ’na picca nel pomeriggio, si concede un giro per Prati per un libro, le sigarette, pigghiari ’na vuccata d’aria e, se capita, canusciriqualche sbinturato personaggio in cerca d’autore. Ma recentemente l’ulteriore abbassamento della vista l’aveva costretto a cambiare un po’ le sue abitudini.
Il successo che arriva in età matura cambia la vita. Di questi tempi ti senti vecchio soltanto se lo vuoi, se ti torna comodo. Siccome ti sei stancato di quello che sei e di quello che fai, ti stai costruendo l’alibi della vecchiaia. Allora, ti pigli un cani per tiniriti compagnia, la matina nesci, t’accatti il giornale, t’assetti sopra ’na panchina, lasci il cani libero e accomenzi a leggiri… (Le ali della sfinge, 2006).
Quest’anno, a 93 anni di età, Camilleri. con le più recenti inchieste condotte nel mondo reale da Montalbano, ha creato fibrillazioni tra i politici di governo e di alcuni dirigenti Rai che si sono trovati in palinsesto due nuovi episodi mandati in onda l’11 e il 18 febbraio 2019. Motivo dei malumori e delle polemiche? Il commissario Montalbano e i suoi uomini colpevoli di umanità. che, invece di respingere i migranti, si tuffano in acqua, li mettono in salvo e li fanno sbarcare sulle coste di Vigàta.
Qual è il pensiero di Andrea Camilleri, gli venne chiesto, su un tema sensibile della cronaca, quello dei migranti? «I porti, afferma lo scrittore, devono essere aperti, mai chiusi. I porti spesso sono la riva sognata da gente. Da migliaia di persone. Gli si chiude la porta in faccia».
Sì, Camilleri, ci si sente vecchi soltanto se lo si vuole. Il Sommo la sua vecchiaia la teneva a freno, non le permetteva di impedirle si salire sul palcoscenico del Teatro Greco di Siracusa per raccontare di Tiresia, l’indovino tebano che indicò a Ulisse la via del ritorno. E in quella cavea levigata dai secoli confessò al suo pubblico: «ho sentito l’urgenza di riuscire e capire cosa sial’eternità e solo qui posso intuirla, solo su queste pietre eterne». E io, che ricordo quest’altro suo pensiero «se potessi vorrei finire la mia carriera seduto in una piazza a raccontare storie e alla fine del mio cunto passare tra il pubblico con la coppola in mano», prendo il suo recente Il cuoco dell’Alcyon (Sellerio), che da qualche mese aspettava di essere aperto, e, per rendere omaggio al Sommo, inizio a leggerlo seduto, tra la realtà e l’immaginazione, sotto una folta acacia della mia piazza preferita. Continua a girare l’inarrestabile giostra della vita. Inizio dalla bandella di Salvatore Silvano Nigro «Da qui partono e si inanellano le trame macchinose e la madornalità di una vicenda che comprende, per “stazioni”, lo smantellamento del commissariato di Vigàta…». Sfoglio qualche pagina. Montalbano sostituito? Arrivato un nuovo commissario a Vigàta? La villetta sul mare in vendita? Montalbano apre un ristorante a Boccadasse?
Una vera premonizione? Devo affrettarmi a leggere. Anche se lo stesso scrittore, nella nota a conclusione del libro, tenta di tranquillizzarmi: «Ancora una volta dichiaro che anche quest’ultimo romanzo è interamente frutto della mia fantasia». Si concluderà così la saga più seguita della letteratura italiana? Lo sapremo entro la fine dell’anno, quando Antonio Sellerio manderà in stampa il testo con l’uscita di scena di Montalbano, che lo scrittore ha consegnato, fin dal 2006, al suo editore storico.
Ne sono certo, Camilleri ci sorprenderà ancora. Intanto, grazie al geniale narratore di storie della nostra Italia.
18.7.2019

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