Lo Zibaldone
Attesa di DIo
di Francesco Roat
Appena giunta in libreria, “Attesa di Dio” è una significativa raccolta di scritti composti fra il 1941 e il ‘42 da Simone Weil: una filosofa di difficile collocazione entro questa o quella corrente di pensiero. Un personaggio caratterizzato da un profondo impegno civile e da una religiosità eccentrica − pur d’elevatissimo rigore morale − davvero inquietante sia per credenti che non credenti. Affascinati questi ultimi dalla sua estrema sensibilità e testimonianza etico-sociale ma sconcertati dall’estremismo ascetico della sua mistica.Turbati, in parallelo, i primi dalla contraddizione weiliana di proclamare a gran voce la propria fede in Cristo/Dio ma al contempo di volersi tenacemente collocare fuori dalla Chiesa: nell’intersezione fra il cristianesimo e ciò che di vitalmente significativo sta al di là di esso.
Forse è bene iniziare quest’invito alla lettura di “Attesa di Dio” con una considerazione sulla sventura (malheur), che mi sembra rappresenti senz’altro il tema cruciale del pensiero di Simone. Sventura come cifra emblematica del limite, della precarietà e della finitudine propri di ogni umano. Per la Weil infatti l’accettazione del dolore e dell’apparente assurdità d’un vivere all’insegna del venir meno rappresenta la chiave utile a spalancare la porta su una dimensione altra: quella religiosa/spirituale; l’unica in grado di consentirci di non disperare dinnanzi al malheur ma di assumerlo come necessità ineludibile e di trasformare tale consenso in una sorta di libertà (dalle illusioni e dalle vane brame, quantomeno).
Non a caso l’attenzione della Weil in quanto sedicente cristiana si sofferma più sulla passione che sulla resurrezione di Gesù, giacché la croce è simbolo di un accettare/patire totalmente l’esistenza, prima ancora di una speranza oltremondana. Croce da cui fu gridata/denunciata dal Figlio l’assenza del Padre (“Dio mio, perché mi hai abbandonato?”). Assenza che in un certo qual senso ha inizio al momento stesso della creazione, allorché Dio abbandona mondo e creature alla dura legge della necessità attraverso un’abdicazione (kenosis) già avvenuta ben prima della morte del Giusto.
Ma è appunto attraverso un processo chiamato da Simone decreazione (décréation) che pure l’uomo imitando Dio − il quale, secondo la Weil, nel creare l’universo ha compiuto “un atto di rinuncia” rispetto alla propria onnipotenza “acconsentendo a non dominarvi” e permettendo che in sua vece regnasse la “necessità meccanica connessa alla materia” − deve rinunciare all’io, all’egoismo, e a qualsivoglia pretesa velleitaria. Una rinuncia egoica totale che ricorda molto la gelassenheit: l’abbandono a Dio del grande mistico tedesco Meister Eckhart.
Però essa ricorda anche lo stoicismo, il buddismo e in generale un po’ il misticismo d’ogni epoca (tanto orientale quanto occidentale), che fa della meditazione intorno alla morte il primo compito da affrontare per chi voglia aprirsi al divino. In quanto, paradossalmente, solo attraverso la morte l’uomo potrà accedere all’immortalità. Il riscatto dalla sventura dunque passa per l’annichilimento dell’io e della tendenza accentratrice/predatrice. Perdita che sola ci consente di aprirci a un’ottica trasfigurata affinché possiamo cogliere la nuda bellezza del mondo universo.
E, quantunque normalmente ognuno sia portato a colonizzare/dominare l’altro da sé cercando di ampliare sempre più la propria influenza sulle cose e sugli esseri, resta che questa brama si rivela puntualmente illusoria, se non altro perché al tempo (vecchiaia, privazione e morte) non si può sfuggire. Stante tutto ciò, appare davvero suasivo l’invito weiliano a smettere di proiettarci nel futuro e di rimpiangere (o biasimare) il passato, badando a rimanere nella dimensione dell’hic et nunc, del presente, qualunque cosa accada, imparando a vivere senza angoscia l’ineluttabile.
È questa la contemplazione del mondo auspicata dalla mistica Simone, che implica: “Svuotarsi della propria falsa divinità, negare se stessi, rinunciare a essere con l’immaginazione il centro del mondo”, per aprirsi piuttosto a uno sguardo amorevole che, rivolto alla materia è apprezzamento per la “bellezza” e l’“ordine del mondo”, rivolto alle persone esprime la “carità” tanto auspicata dal Cristo nei confronti del prossimo e tuttavia si rivela implicitamente quale atto d’amore verso Dio.
Un Dio, è bene sottolinearlo, che qui appare spoglio di qualsivoglia ruolo/dogma gli sia stato affibbiato da questa o quella teologia, chiesa o tradizione religiosa; giacché il divino è mistero (parola che trae origine dal verbo greco myein: chiuder gli occhi e la bocca non potendo cogliere l’invisibilità/indicibilità del sacro). Quindi, secondo la Weil e tutti quanti i mistici: “La parola di Dio è il silenzio”. Noi però siamo disabituati a un’attesa silente, incondizionata e fiduciosa. Ma sapendo abitarla potremmo forse cogliere: “Quando il silenzio di Dio penetra nella nostra anima” e “si apre un varco fino a raggiungere il silenzio segretamente presente in noi”.
Simone Weil, Attesa di Dio, a cura di M.C. Sala, Adelphi, 2024, pp.350, euro 14,00

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