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Appetricchio
Un viaggio per l’Italia, da Nord a Sud per raggiungere un borgo sperduto della Lucania, quel luogo sicuro in cui tornare: ogni estate, ogni Natale, sempre. Una narrazione corale, inedita e sorprendente che parla di luoghi e di legami.
di Elena D’Alessandri
Petricchio era un posto sperduto, sospeso nel tempo, che neanche i suoi abitanti sapevano dire esattamente dove si trovasse. “Terra di mezzo tra montagna e mare, Petricchio era come Narnia: un posto immaginifico escluso dalle mappe e fuori dalle rotte, diviso dal resto del mondo da un ponte malfermo e da un bosco di serpi. Nemmeno chi ci abitava sapeva dov’era”. Dopo lo spopolamento di inizio secolo, negli anni ’80 a Petricchio si contavano 25 abitanti, di cui una metà sordomuti, buona parte dei quali di nome Rocco, in onore al santo patrono, senza cognome, ma distinti tra loro dal mestiere. C’erano Rocco O’Bidello, Rocco Ponte, Rocchettano (nipote, quest’ultimo, di Rocco e Gaetano). Ma c’erano anche tanti altri personaggi curiosi: Nonno Occhei, il decano del paese, Marisella, una strampalata signora sulla quarantina, Adelina, tornata un giorno dall’Argentina con un segreto…
E’ lì che era nata Rosa, moglie di Guidodario, un farmacista del Nord Italia – o’scienziato dell’Altitalia – e madre dei gemelli Mapi e Lupo. Ed era lì che da Brescia ogni estate e ogni inverno la famiglia Bresciani, caricata l’auto, attraversava lo Stivale per raggiungere i nonni Milù (Carmela) e Pietro per trascorrere le vacanze a Petricchio, presto divenuto ‘Appetricchio’, secondo la consuetudine dialettale dei suoi abitanti di aggiungere una a e raddoppiare la consonante iniziale a ogni vocabolo.
Ed è lì che Mapi e Lupo bambini avevano scoperto il mondo, quel piccolo microcosmo arcaico senza strade e senza vie, dove tutto era un ‘labbash’, lancopp’, l’arret’, fatto di tradizioni, e piccoli riti sconosciuti a chi veniva dall’Altitalia. Anche una volta maggiorenni “i gemelli si dibattevano tra la voglia di andare altrove e quella di andarci ancora una volta – come quando l’amore è finito, ma per una forma di delicatezza te ne vai dopo Natale, per non rovinare le feste. Avrebbero voluto fare l’Interrail come i loro amici, ma avevano ceduto al fotofinish, come richiamati da un dovere ancestrale”.
Appetricchio era un luogo fermo nel tempo, in cui la modernità non aveva fatto il suo ingresso. Erano stati infatti i Bresciani che, dal Nord, di anno in anno avevano portato l’innovazione, guardata spesso con diffidenza: ora con il salvavita Beghelli, ora con la macchina per il caffè, ora con il catalogo postalmarket…
Avanti e indietro nel tempo, nel corso di due decadi, tra gli anni ’80 e la fine dei ’90, la famiglia Bresciani ricorda i tanti episodi occorsi in quel luogo fino a quando, un evento drammatico e improvviso, li terrà lontano da lì per quasi un ventennio. Ma anche dopo tanto tempo, continueranno a sentire il richiamo di Petricchio, che continuerà ad incarnare il rifugio sicuro, quel luogo in cui tornare.
Appetricchio, secondo romanzo di Fabienne Agliardi – dopo lo spumeggiante ‘Buona la prima’ (Morellini, 2020) – in libreria dal 5 settembre con Fazi Editore (288pp, 18 Euro), è un romanzo che parla del legame con i luoghi e con le proprie radici, un rapporto indissolubile che, soprattutto con gli anni, torna a farsi sentire. Ed è così che Petricchio, che “esiste nella misura in cui vogliamo farlo esistere. Come il posto delle nostre estati da criaturi, ovunque esso sia”, diventa paradigmatico, assumendo una valenza universale, in cui tutti coloro che amano immergersi negli ‘altrove’, ma che vogliono comunque sentirsi a casa, possono immergersi e ritrovarsi. La scrittura originalissima e briosa della Agliardi che fonde con sapienza l’italiano al ‘petricchiese’, affascina, coinvolge e sorprende il lettore ad ogni pagina con colpi di scena davvero inattesi, dando vita ad un romanzo corale, unico nel suo genere, nostalgico e pieno di forza narrativa.

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