Lo Zibaldone - Recensioni
Alla ricerca del Dio perduto
di Francesco Roat
Per quel poco che conta il mio parere, dirò subito con franchezza che da tempo non avevo letto uno scritto così perspicace, provocatorio e stimolante come il primo volume della trilogia di Franco Livorsi, intitolata Psiche e eternità. Esso si apre all’insegna di tre interrogativi che da sempre hanno intrigato il genere umano: Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo? Ovvio che l’autore chiarisca sin dalla prima pagina come non sia possibile ‒ a livello meramente razionale, quantomeno ‒ rispondere in modo esaustivo a tali domande; tuttavia egli inizia col farlo in modo paradossale, proponendo altre questioni parallele in forma dilemmatica. Ad esempio la seguente: “Siamo solo un mucchietto di atomi?” ‒ ci/si chiede l’autore ‒. Oppure, data la nostra autocoscienza e creatività: “nella nostra finitezza c’è qualcosa di infinito, nella nostra temporalità qualcosa di eterno”? E ancora: è mai possibile vi sia un significato e non solo una mancanza di senso nell’esistenza?
Un modo per replicare a tali temi contrastanti ed apparentemente aporetici potrebbe essere quello espresso da Wittgenstein, secondo il quale ‒ come recita l’ultima proposizione del suo Tractatus logoco-philosophicus ‒: Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere. Ma, a detta di Livorsi, l’agnosticismo intorno ai problemi ultimi è solo astratta teorizzazione filosofica, poiché nella prassi della vita è impossibile esimerci dal porci le suddette questioni e al contempo dal tentativo di dare una qualche risposta ad esse, scegliendo la soluzione/decisione che ci pare più attraente/rispondente al nostro contesto esistenziale (che è peraltro sempre mutevole, come le idee che ci facciamo su di esso).
Così questo suo libro è costituito dall’inesausto interrogarsi su cose da far tremar le vene e i polsi, per dirla con Dante, come l’esistenza (o meno) di Dio, il problema dell’infelicità umana, strettamente legato a quello di poter giungere ad un superamento di essa (se non proprio di acquisire la felicità strictu sensu). E, non da ultimo, intorno a come misurarsi ed affrontare quanto chiamiamo male, negatività, irrimediabilità; o anche solo morte, concepibile vuoi quale fine-definitiva (del singolo vivente), vuoi quale metamorfosi o, ancora, quale porta spalancata su un oltre e/o un altrove che, con Amleto, Shakespeare lucidamente ebbe a chiamare: luogo inesplorato dai cui confini nessun viaggiatore ha mai fatto ritorno.
Al contempo il bel libro di Livorsi è anche una sorta di trilogo teatrale: una conversazione a tre voci, appunto, fra diversi attori o tipi umani, in parte difformi e in parte simili: Homo religiosus, Homo Atheus e Homo Psychicus. Il primo personaggio è, a mio avviso, caratterizzato da una religiosità che, sia intesa etimologicamente quale legame con il sacro, sia vista come discernimento e cura, sia colta nell’ottica di un’opzione fideistico-fiduciosa, esprime sempre qualcosa che dà significato, unisce, orienta ed affratella il nostro sentire/agire. Il secondo ‒ qui, vero e proprio antagonista polemico rispetto al primo ‒ è un razionalista/scientista disincantato e refrattario verso ogni discorso che abbia a che fare con quel mysterion che è stato chiamato anche Dio. Il terzo ‒ sorta di equilibrato mediatore (metaxu) ‒ ha il ruolo di chi ambirebbe, se non a conciliare, a superare pur senza negarli gli opposti convincimenti degli altri due, mediante una specie di Aufhebung hegeliana che però finisce per non giungere mai (ed è forse un bene per l’autore e per il lettore) ad una sintesi conclusiva, la quale rischierebbe di ridursi a hybris, a tracotanza effimera.
Va aggiunto che l’autore non pare voglia dissociarsi dalle varie istanze portate avanti dai triloganti; intendo dire che vi è senz’altro in lui un bel po’ di quanto afferma ognuno dei tre personaggi, che alla fin fine sembrano affratellati dal medesimo bisogno di autenticità/veridicità. Il più poetico è certo Religiosus, in grado di proporre immagini e metafore di grande efficacia espressiva, come ad esempio questa: “Ma la patria dell’esserci, quantomeno idealmente, rimane nello Spirito: resta l’eterno mare, natura primordiale che tutti quanti avvolge (…). Usciamo e ritorniamo nel mare‒ spirituale ‒ che permea ogni vivo, e in noi viene percepito, alla prima radice, qual acqua originaria, soffio proprio di Dio, psiche eterna del soma, soma eterno di psiche, da sempre interconnessi”.
Il più scafato è il materialista Atheus, convinto della nostra irreparabile finitudine e sprezzatore d’ogni specie di religiosità che egli vede, seguendo Marx e Freud, quale oppio dei popoli o quale nevrosi infantile dell’umanità. Il più equilibrato è indubbiamente Psychicus ‒ ma forse l’autore avrebbe potuto chiamarlo Philosophus, dato l’interesse della sua creatura cartacea per la filosofia ‒: un pensatore assai poco dogmatico, convinto che religiosi e scienziati siano sempre a rischio di pigliar lucciole per lanterne quando credono di avere certezze a portata di mano o si permettono di fare asserzioni apodittiche. Si sbagliano infatti gli uni quando si arroccano in difesa d’una spiritualità metafisica, e pure gli altri quando fanno della ratio la loro unica dea. Psychicus non sa se esista davvero un Dio, ma lo considera junghianamente un archetipo presente nel nostro immaginario.
I tre si passano l’un l’altro il testimone in una staffetta discorsiva che si legge d’un fiato e affascina per la caleidoscopicità delle difformi posizioni assunte: mai banali in nessun caso. Nel mentre, grazie a loro, Livorsi passa in rassegna i rappresentati più autorevoli del pensiero occidentale: da Pitagora ad Heidegger, non senza una puntata in Oriente trattando dei Veda e del buddhismo. E se durante il trilogo Religiosus apprezza i mistici, mentre Atheus li disprezza come ingannevoli, Psychicus suggerisce ai due fratelli di non contrapporre rigidamente mythos e logos, invitandoli ad avvalersi dell’intuizione, del sogno, dell’espressività poetica e ‒ perché no ‒ persino dell’irrazionalità, un pizzico della quale è indice non di follia ma di saggezza.
Fra i tre si parla infine del male. Argomento scottante per ogni religioso ‒ come rispondere in modo convincente al vecchio interrogativo: si deus est, unde malum? (se c’è Dio, da dove viene il male?) ‒, liquidare il quale, considerandolo una mera convenzione equivalente a quella del bene ‒ secondo l’opinione di un ateo qui fin troppo freddamente razionaleggiante ‒ appare comunque ipotesi riduttiva o assai semplificativa. Ci vorrà ancora una volta il conciliatore Psychicus a mediare tra gli atteggiamenti discordanti dei suoi interlocutori, senza appiattirsi su un ottimismo evangelico da anima bella, e senza scivolare nel pessimismo di chi veda, come Leopardi, la natura come solo crudele e matrigna disinteressata delle creature da lei partorite.
Per concludere, emerge quasi implicitamente tra le righe di questa riflessione un messaggio su cui meditare: noi non siamo solo soma e psiche ma pure pneuma (spirito) o, se vogliamo usare un altro termine, nous (mente). Mente che ritroviamo non solo nel sentenzioso homo sapiens ma in ogni cellula vivente; ardirei aggiungere: in ogni atomo, che forse ‒ come pensa il fisico alquanto metafisico Federico Faggin ‒ ha una qualche forma di coscienza pure esso. E, a lettura finita di questo libro davvero magistrale, non ci resta che attendere, impazienti, il secondo volume della trilogia: sorta di conte philosophique o romanzo d’idee. Sul terzo, posso solo dire che si tratterà d’un poema in versi. Con quale altro strumento, d’altronde, se non quello della poesia un’anima potrà mai esprimersi appieno?
Franco Livorsi, Psiche e eternità. Alla ricerca del dio perduto, Moretti&Vitali, pp. 272, euro 27,00

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