Lo Zibaldone
Storia della bambina infranta, di Luisa Trimarchi
di GISELLA BLANCO
Storia della bambina infranta (dialoghi – nudi) di Luisa Trimarchi (prefazione di Davide Toffoli e Postfazione di Filippo Golia) per Puntoacapo Edizioni è un libro di poesie estremamente unitario nella forma e nel contenuto, pur essendo molto lontano da una costruzione narrativa in senso stretto. “Un’unica, complessiva visione”, come giustamente afferma Golia, che si conferma attraverso una organicità estetica e gnoseologica pur affrancandosi da qualsiasi tipo di racconto sequenziale o evenemenziale.
La locuzione tronca “della bambina infranta”, nel titolo, lascia trasparire non una bambina qualunque, ma una in particolare, nominabile e individuabile eppure, al contempo, non esattamente personale e personificata ma con una radice plurale, estensibile. È infranta, e lo si dichiara subito, come la realtà che andrà a dire. E si rivolge a un tu non identificato, e al lettore, attraverso la forma dei dialoghi, al plurale, come i “nudi” nominati subito dopo, da intendersi, forse, sia come aggettivo sia come sostantivo che indicano la compresenza di interlocuzioni e, appunto, di nudi (in senso artistico o meramente fisico che si voglia).
I testi, a cui si affiancano delle illustrazioni create ad hoc da quattro disegnatrici, appaiono come stralci di un discorso interrotto, frammentato perché nato già a pezzi. Il lessico ricorsivo, sia aggettivale che sostantivale (“rotta”, “grida”, “sangue”, “ferita”, “ossa”, “dolore”, etc.), spiega un corpo, anch’esso parcellizzato e mutilato, che è origine e dimostrazione di un pathos insaziabile e archetipico. Pur essendo presente nella sua interezza tra i vari testi, questo corpo è particolarmente rappresentato dalla sfera sonoro-uditiva che si compie sinesteticamente in immagine con il coinvolgimento attivo di tutti gli altri sensi. Come ben specifica Toffoli, l’apparato onomatopeico presente lungo tutto il libro è parte integrante del mondo percussivo di questa bambina violenta e violata. È come se tutto il suo universo si svolgesse all’interno di un utero mai schiuso, un utero materno e odioso che, a differenza di come avviene per i figli maschi, non l’ha mai veramente espulsa. Tutta la vita di questa figlia concepita in croce come una figura cristica desacralizzata (e, al contempo, ribelle e riottosa come un segno creaturale del diavolo), sembra svolgersi in un interno, in una prigionia, in una gabbia che, però, non riesce a trattenere i rumori di una spasmodica ricerca di emancipazione.
La bambina infranta non ha una storia precisa (la storia presente nel titolo appare forse più come una prescrizione destinale a cui porre rimedio), non indica una violenza o un fatto di dolore specifici, e per questo è possibile che soffra non di un evento singolo ma di un male comune e diffuso, ancestrale, vecchio come la storia dell’umanità, eppure sempre diverso.
Le ascendenze caproniane, puntualmente individuate da Toffoli e Golia, sembrano unirsi all’eco dell’ultima Carnaroli, nonché a qualche suggestione del rimema di Patrizia Cavalli. L’uso delle rime e delle allitterazioni, infatti, rende, più che nel precedente libro dell’autrice, un ritmo cantilenante, quasi come filastrocca o una nenia per bambini: tale caratteristica, unita al linguaggio talvolta forte e truce, rende appieno l’atmosfera di oppressione che quasi costringe la bambina a un gesto estremo di liberazione.
Una continua tensione tra vita e morte, silenzio e grida, dentro e fuori, assenza e ritorno, suono e mutismo, attanaglia il lettore tra i versi, come se qualsiasi status sia inappropriato e disagevole per questa bambina cristallizzata in ogni età della donna (“è un’assemblea di tutte le mie età” recita Patrizia Valduga citata in esergo), eppure mai del tutto venuta alla luce.
È una creatura che si percepisce perennemente sbagliata, fuori luogo, inadatta, ma questa percezione coincide anche con una rivendicazione dura e convinta, un attacco alla società che la vorrebbe diversa e ridimensionata, spersonalizzata e addomesticata in forme e comportamenti eteroimposti. Il dolore non ferma e non rallenta la rivendicazione, e sembra rielaborato più in forma di “prova da sforzo” che come condanna o male necessario. Non c’è vittimismo, insomma, e nonostante i toni cupi e perentori, uno spiraglio di libertà si insinua come dubbio al fato, come messa in discussione di un passato che si può contestare e come presa di coscienza che il presente va definito passo per passo, tutelando la soggettività che può perfino diventare un interesse realmente corale e politicamente pubblico nella “sera oltrepassata”.

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