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Lo Zibaldone

Veronica Franco, cortigiana e poeta che ridiede una voce alle donne

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di Frank Iodice

Ero solo un bambino quando insieme ai miei genitori sono andato per la prima volta a Venezia e passeggiando tra le stradine umide e colorate della parte più vecchia della città, ho visto un antico pannello di marmo con la scritta “Ponte de le Tette”. È stato allora che mio padre mi ha raccontato la storia di Veronica Franco e delle belle e colte cortigiane della Venezia del ‘500. “Le donne più belle del mondo” secondo mio padre (e secondo molti critici letterari, storici e registi televisivi).
Donne che avevano il privilegio di accompagnare i nobili alle cene e discutere con loro di arte e letteratura, donne che avevano il diritto di studiare, a differenza delle loro contemporanee.
La Repubblica della Serenissima, inoltre, offriva protezione e non permetteva loro di uscire dopo le nove di sera, ad esempio, per evitare che i loro stessi clienti le importunassero.
Nel XVI Secolo le donne come Veronica Franco erano ammirate, rispettate e invidiate da tutti coloro che non avevano la stessa libertà. A inizio Secolo, si contavano circa 11.000 cortigiane a Venezia. In un certo momento storico in cui l’omosessualità (mal vista dal Doge) si stava diffondendo un po’ troppo, le cortigiane ebbero addirittura il compito di “riportare i veneziani sulla retta via” e furono invitate dal Doge stesso ad affacciarsi alle loro finestre o dai ponti principali, con il seno scoperto. Ecco da dove trae origine il nome del ponte sul quale queste mie riflessioni sono incominciate.
Eppure, nonostante i meriti, i privilegi, la virtù di queste donne ancora oggi ammirate dalle giovani in cerca di esempi da seguire, l’enciclopedia letteraria Einaudi dedica poche righe alle opere che Veronica Franco ci ha lasciato, soprattutto poesie e lettere. Testi di una bellezza struggente e di un incredibile valore letterario, soprattutto se li consideriamo come interpreti dell’ideologia di Gender Rinascimentale italiano.
Oltre ad essere una donna bellissima, famosa e ricca, Veronica Franco era soprattutto una poetessa. Ed essere un poeta non vuol dire soltanto scrivere poesie, ma vivere la propria vita attraverso il filtro della poesia, vedere cioè tutto sotto una luce diversa, più delicata e più profonda. Ecco cosa faceva Veronica Franco mentre lasciava al mondo la sua testimonianza letteraria.
Un testo diviso in lettere e “capitoli” (poesie scritte da lei e per lei). Come leggiamo in The honored Courtesan (la cortigiana onesta), l’introduzione al suo libro a cura di Ann Rosalind Jones e Margaret T. Rosenthal, “Franco rappresenta e trasforma la sua vita in poesia.” E mentre nelle lettere ritroviamo elementi autobiografici espliciti (come nella 21, scritta al pittore Jacopo Tintoretto), nelle poesie dovremo fare uno sforzo maggiore per leggere con occhi profani il linguaggio metaforico del piacere e del sentire, i due emisferi tra i quali le sue rime giocano e si nascondono.
Leggiamo sottovoce la poesia a pagina 62, nel Capitolo 1, per esempio, e capiremo che Veronica Franco “non crederà d’essere amata”, ossia, non sarà così ingenua da illudersi che l’uomo al quale si sta rivolgendo nutra sentimenti sinceri, perché lei conosce bene “quel certo non so che, che spiace a tutti”, forse ciò che tormenta ogni anima nobile e pensante.
Nella poesia a pagina 133, nel Capitolo 13 stavolta, Veronica Franco sfida un amante che l’ha offesa e si libera da “una sì grave molestia”, cosciente dell’influenza del troppo amore persino nelle faccende di ira e vendetta. Il suo erotismo in questa poesia diventa strumento di ricatto, ricorda all’amante le scene che neanche lui deve aver dimenticato e ha la capacità di fondere in un’unica metafora la lotta passionale e quella letteraria, i corpi, il ventre che accoglie l’altro ventre, le ferite e “di tal modo combatter a me piace” scrive al verso 64. La poesia si chiude con il conflitto dell’autrice tra il perdono e la battaglia, tra il dolce ricordo dei momenti trascorsi insieme all’amante e “quel ferro” che invece troncherà il suo “scempio”, la sua offesa.
Rosenthal sottolinea l’importanza della poesia di Franco, “in relazione al contesto storico e sociale della Venezia del XVI Secolo.” Infatti, se guardiamo alla sua opera come a quella di una delle poche donne che avevano la fortuna di potersi dedicare a una vita da letterate, capiremo che la sua posizione sociale era fondamentale e che altre, mogli, madri, serve, dovevano accontentarsi della loro devota e cieca ignoranza.
Per Veronica Franco la poesia non fu soltanto espressione di sentimenti profondi e arte della parola, ma anche e soprattutto sfida, “tenzoni” (come quelli nei Capitoli 1 e 2) su vari livelli, letterario, sociale, sentimentale e erotico. La guerra dell’autrice iniziava nel letto in cui accoglieva i suoi amanti, ma continuava anche sulla carta, rima dopo rima, e poi su un piano più filosofico e diacronico, in cui – potremmo dire – rivendicava tutte le donne che prima di lei erano forse state le uniche vere prostitute, perché avevano vissuto in disaccordo con la propria natura, con il proprio intelletto, e fatto ciò che non amavano fare rispettando l’etica degli altri ma non la loro morale. Donne che non avevano avuto una voce.

 

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