Articoli
Finitudine, un romanzo filosofico su fragilità e libertà
Ingegnoso e fantasioso quanto basta lo spunto narrativo che dà l’avvio al romanzo filosofico su fragilità e libertà di Telmo Pievani, opportunamente intitolato: Finitudine. Ci troviamo nel centro ospedaliero di Fontainebleau, all’inizio del 1960, dove il biologo e premio Nobel Jacques Monod si è recato a trovare il suo amico e scrittore Albert Camus (altro premio Nobel), gravemente ferito in un incidente stradale. In realtà Camus morì nell’infortunio, ma poco importa: la modalità romanzesca permette questo ed altro. Dunque Pievani fa leggere da Monod all’amico giusto un suo manoscritto sull’umana finitudine e i due ne parlano in dialoghi filosofici che si alternano ai capitoli del testo che il biologo avrebbe composto.
Così si struttura il libro del nostro filosofo e biologo evoluzionista italiano, ma ‒ è bene dirlo subito ‒ questo conte philosophique risulta assai più un saggio che un romanzo; a dimostrarlo basterebbe solo la sproporzione tra le pagine saggistiche che prevalgono su quelle dialogico-narrative; oltre al fatto che queste ultime risultano appesantite da un eccesso di razionalità, la quale dovrebbe invece essere stemperata dagli interventi di Camus, che qui appare più filosofo che romanziere e quasi un alter ego di Monod, a cui non è in grado di ribattere con un discorso poetico/poietico in grado di andare oltre le argomentazioni scientifiche dell’amico.
Perciò Monod/Pievani ha buon gioco (e spazio a volontà) per sciorinare le sue opinioni/ragioni, alle quali nessun dubbio viene contrapposto, alcuna alternativa è immaginata, la benché minima diversità di vedute appare qui declinata. Quantunque tali ragionamenti in gran parte siano abbastanza condivisibili. Come il fatto basilare della generale finitudine: nostra e di chi verrà dopo di noi, se teniamo conto del fatto innegabile che ‒ senza parlare di eventuali guerre nucleari, di ulteriori devastazioni ambientali o di non inverosimili futuri impatti del pianeta con qualche meteorite/asteroide gigante ‒ tra un miliardo di anni l’aumentato calore della nostra stella soffocherà: “noi mammiferi di grossa taglia”.
Inoltre, ci informa sentenzioso Pievani: “Ogni cosa è peritura, tranne gli atomi e il vuoto”. La finitudine, insomma, è inevitabile; resta nondimeno altrettanto condivisibile la considerazione che, paradossalmente, grazie alla morte quale orizzonte comune, per noi umani: “la vita assume un valore altissimo, incommensurabile, perché è la sola possibilità che abbiamo di fare la differenza tra la nostra non-esistenza e la nostra esistenza”. Certo, qualcuno potrebbe obiettare: se la morte è destino fatale, tramite sempre nuove scoperte bio-tecnologiche potremo però prolungare sempre più la vita. Ma, dice bene Pievani: “difficilmente arriveremo al punto di aggirare i profondi meccanismi di senescenza delle nostre cellule, di esaurimento funzionale degli organi e di accumulo di mutazioni genetiche cancerogene”. E rincara la dose precisando: “La mortalità non è, sul piano evolutivo, una malattia da curare: è una condizione strutturale inscritta in ogni componente della nostra organizzazione fisiologica”.
Che fare allora, arrendersi all’ineluttabile? Giammai, osserva il nostro autore: “Siamo mortali, d’accordo, irrimediabilmente, ma almeno facciamo parte di una storia più grande, di un’impresa collettiva, dentro la quale il nostro contributo non andrà perduto. Il progresso sociale, civile e politico dell’umanità ci dice che siamo i tasselli, ancorché finiti, di una storia che non finisce e che accumula conquiste di civiltà”. Ci sarebbe da discutere parecchio sul concetto di progresso e chiedersi, quantomeno a livello ecologico, quali siano oggi le sue magnifiche sorti e progressive. È vero tuttavia che la povertà globale negli ultimi cento anni è man mano diminuita, come invece parallelamente è aumentata un po’ ovunque la durata media della vita. In sintesi, per l’ottimista Pievani: “Occorre rivoltarsi contro il lato malato del progresso, non con spirito reazionario, bensì libertario”.
Dunque consoliamoci; se i viventi sono morituri: “Le particelle elementari delle cose sono eterne. I mattoni sono eterni”. E ancora: non è tanto la morte ad essere onnipotente, bensì il perenne mutamento. In ogni caso: “Gli atomi che compongono il nostro corpo, incluso il nostro cervello, dopo la nostra morte torneranno nel grande flusso e calderone universale”. Ecco, mettiamoci l’animo in pace: “La nostra esistenza è così bella – a volte un capolavoro – proprio perché finita, fragile, mortale. Quindi, è la finitudine, paradossalmente, a darle una cornice di senso”. Come a dire: beato chi s’accontenta.
Concludendo, ha senz’altro ragione Pievani: se la vita non dovesse terminare mai, sai che noia! E se nessuno morisse più, dove trovare spazio per nuovi esseri viventi? Tutto verissimo, tutto razionale, tutto coerente, tutto che non fa una piega, come il testo di Pievani. Ma dove stanno in questo pur bel libro: Camus, l’invenzione romanzesca, la poesia, la a-razionalità (si badi bene, non la mera irrazionalità), o un qualsivoglia pensiero divergente e altro rispetto alla saccenza scientifico-tecnologica? Forse è solo quest’ambito davvero non marginale che manca a Finitudine.
Telmo Pievani,
Finitudine. Un romanzo filosofico su fragilità e libertà,
Raffaello Cortina Editore, 2020
pp. 280, euro 16,00

You must be logged in to post a comment Login