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Tra Cristianesimo e Induismo

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di Francesco Roat

Henri Le Saux (1910-1973), monaco benedettino bretone, affascinato dalla spiritualità induista e convinto dell’urgenza di praticare un ecumenismo avanzato che favorisse l’incontro tra cristianesimo e induismo, nel 1948 riuscì a farsi trasferite in India, dove qualche tempo dopo, assieme al sacerdote francese Jules Monchanin, fondò un inedito eremo benedettino-hindū adottando il nome di Abhiṣiktānanda. Ma saranno soprattutto i reiterati e solitari soggiorni meditativi presso alcune grotte della montagna sacra di Aruṇācala a fargli comprendere la necessità di fare il vuoto dentro di sé per giungere a quella advaita, a quella pacificante ed oceanica condizione di non-dualità, che secondo l’induismo è costituita dal cogliere tutto quanto all’insegna del brahman o spirito universale, del quale fa poi parte ‒ o meglio, a cui equivale ‒ l’ātman: cioè quella che, con termini occidentali, potremmo chiamare l’anima individuale.

Da queste meditazioni nascerà il libro Guhāntara ‒ “Nella caverna del cuore” ‒, con l’intento di individuare le basi per un advaita cristiano, che in primo luogo consentisse di abbandonare la visione di un Dio altro rispetto all’uomo, riconoscendone la presenza giusto all’interno del cuore.  Ma attenzione, come sottolinea Stefano Rossi (il curatore/traduttore dello scritto nella sua assai puntuale Introduzione), secondo Le Saux al cristiano non può bastare: “una beatitudine statica, come è concepita nel Vedānta” (gli ultimi testi sacri vedici). Per Abhiṣiktānanda bisogna piuttosto pervenire ad un livello ulteriore ‒ non ancora esplorato dagli asceti dell’India ‒, grazie al quale e a Cristo che ce l’ha insegnato: “conoscendo nel più profondo di sé, si conosce anche il Padre”, fiduciosi del fatto: “che scoprendo sé stessi, si scopre il Padre”. Solo così ci si può accostare al mysterium Trinitario; pure se, precisa consapevolmente Le Saux: “i nomi del Padre e del Figlio non sono che immagini, così come quello dello spirito”, e guai a rimanere attaccati alle definizioni astratte, alla lettera che, paolinamente/spiritualmente, da sola uccide.

Dunque il percorso suggerito dal nostro eremita è innanzitutto una spoliazione (kenosis). Occorre abbandonare ogni velleità intellettuale ed egoica di poter conoscere l’Assoluto tramite ragione e teologia per abbandonarsi invece all’abisso che si apre in noi se, fatto tacere ogni nostro discorso intorno alla Realtà ultima, sprofonderemo sino al fondo dell’anima, per dirla con Meister Eckhart. Certo si tratterà pure di attraversare la noche oscura (notte oscura) di essa, descrittaci secoli fa da Giovanni della Croce, ma se saremo in grado di farlo perverremo a quella unitas spiritus (1 Cor 6,17), a quell’unità con Dio che è l’unica salvezza definitiva, l’unica autentica ānanda (la beatitudine secondo l’induismo). E solo così il ricercatore spirituale sarà capace di realizzare l’agape, la caritas, l’amore oblativo e disinteressato cristiano, avvertendosi in grado di: “Sentire miei tutti gli Esseri, sentirmi il Sé di tutti gli esseri”. In parallelo: “è solamente quando sono risalito ‒ o sprofondato ‒ nel mio vero Sé, il mio Sé divino, che io posso immergermi dentro ogni creatura, nel modo in cui si immerge nella sua eternità, in suo aeterno, Dio stesso”.

Tuttavia, sempre un po’ sulla scia di Meister Eckhart, che ebbe a sostenere: prego Dio che mi liberi da Dio ‒ auspicando di venir purgato da ogni concezione antropomorfica/utilitaristica della gotheit (Divinità) ‒, Le Saux prende le distanze da questo supposto ente idolatrico ultraterreno (di cui appunto egli ritiene sia opportuno affrancarsi), da lui visto con ironia quale un: “incaricato di assicurare all’uomo un’eternità sufficientemente confortevole”. Semmai un solo pellegrinaggio si addice al saggio: quello da compiersi verso il di-dentro, onde situarsi nella: “ineffabile pura coscienza di essere”. È questo il cammino e l’impresa affrontati dai mistici di ogni tempo e luogo, sia cristiani che indiani. Ma i mistici però, in Occidente, sono stati quasi sempre guardati con sospetto dalla Chiesa, per il loro tenace antidogmatismo. Ne è perfettamente/amaramente consapevole il nostro eremita, che ‒ verso la conclusione del suo libro ‒ così la stigmatizza:

“Perché voler essere il solo cammino verso le cime? Non è forse, da parte sua, pura cecità? (…) Perché non accettare essa stessa, Chiesa romana, di essere semplicemente una di queste numerose vie che gli uomini hanno inventato per salire fino a Dio o che essi hanno costruito sulla scia gloriosa di coloro che, nel corso dei tempi, sono stati inviati da Dio per istruire e rischiarare gli uomini?” ‒ mentre parlando dell’induismo, ha parole altre/cordiali ‒ “L’India gioisce del suo sogno di Dio, ma, proprio dentro al suo sogno, è il risveglio ad attirarla con il suo potente magnetismo. Ora, al risveglio, tutto svanisce, non ci sono più forme, né forme del mondo né forma di sé, né forma di Dio”.

Henri Le Saux o.s.b. (Svāmī Abhiṣiktānanda), Nella caverna del cuore, Le Lettere, Firenze 2022, pp. 296, euro 23,00

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