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Lo Zibaldone

La “Teofania” secondo Walter F. Otto

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di Francesco Roat

Tra i versi meno felici e più saccenti della Commedia dantesca, credo si annoveri questo ‒ messo in bocca dal sommo poeta a Virgilio, che dichiara d’esser nato ‒: nel tempo de li dèi falsi e bugiardi. Implicito il ritenere, da parte di Dante, che solo il dio del cristianesimo sia quello autentico e veritiero. Affermazione scusabile in un uomo del medioevo ma imperdonabile ai giorni nostri, giustamente all’insegna d’un ecumenismo che non ritiene sia corretto svalutare/screditare le credenze altrui, come ad esempio il politeismo induista.

Eppure, e ad onta del rispetto che ci sentiamo tenuti a serbare verso le idee altrui, una religiosità legata non ad un dio bensì a più divinità, tende a sembrarci storicamente datata/sorpassata, inconcepibile o quanto meno bizzarra. Oggi, in Occidente almeno, gli dèi non hanno più nulla da dirci, li consideriamo un retaggio mitologico, fantasie pari a quella di Babbo natale; ci risultano insomma assolutamente inattuali. Ciononostante una cosa è strana: noi ammiriamo molto la poesia, l’arte e la cultura degli antichi romani e greci, ma assai meno i loro dèi ‒ che pure in esse hanno così grande spazio/rilievo ‒ ritenendoli, un po’ come nel medioevo, falsi e bugiardi. Dove sta l’abbaglio, negli antichi o in noi?

È quanto si chiede Walter Friedrich Otto nel saggio: Teofania. Lo spirito della religione greca antica, in cui egli illustra una prospettiva insolita, secondo la quale: “gli dèi non sono frutto di invenzioni, elu­cubrazioni o rappresentazioni, ma possono sol­tanto essere sperimentati”. Essi quindi costituirebbero una sorta di: “rivelazioni ontologiche riservate a un momento particolare della vita universale”. Come a dire: questo o quel mito, tale o talaltra figura numinosa non nascono dalla fantasia ci chi li crea, “bensì dalla lucida contemplazione dell’occhio spirituale spalancato sull’essere delle cose”.

Rovesciando l’interpretazione comune, non è quindi l’uomo a creare il mythos, semmai è l’ambito ritenuto sacro a rivelarsi attraverso la parola e l’immagine mitologica. In quanto alla religiosità greco-romana con tutte le sue varie divinità ‒ dice bene Otto ‒, essa per lo meno non ha creato dogmi e/o libri sacri che stabiliscano a cosa e come credere, al contrario delle tre grandi religioni monoteistiche. Infatti: “Gli dèi greci non hanno dunque bisogno di al­cuna rivelazione autoritativa, come quella cui si richiamano invece altre religioni”.

Una domanda che sarebbe allora da porsi è la seguente: da dove hanno attinto i Greci il loro sapere intorno ai numi, non avendo avuto né un Mosè, né uno Zarathustra, né un Cristo o un Maometto? Verrebbe da rispondere con Otto che forse sono state le Muse a concedere agli umani: “la verità di ogni cosa come essere ricolmo degli dèi”. E se indichiamo/chiamiamo le Muse con un vocabolo moderno qual è l’intuizione poetico-poietica, ciò non mi pare certo disdicevole. Quel che va ribadito in merito alla credenza negli dèi è comunque che essa ha ben poco a che fare con “un pensiero infantile dei tempo arcaici”, ma con un modo peculiarissimo di rapportarsi col mistero dell’esistenza. Modalità che riesce ad esprimere una: “vivida coscienza della pienezza divina di ogni essere e di ogni accadere”.

Interessante è pure come gli antichi politeisti greci considerassero un altro mistero: quello della morte, e la loro compostezza dinnanzi ad essa. Un umanissimo senso della misura, testimoniato dalle numerose raffigurazioni funerarie del V e del IV secolo a.C.; in quanto tali reperti non mostrano segni di particolari apprensioni o speranze/credenze paradisiache nei confronti dell’aldilà. Il cosiddetto antropomorfismo delle figure divine, poi, che è sempre stato visto come elemento di debolezza della religiosità greca, ad una più attenta analisi si rivela aspetto da riconsiderare positivamente, in quanto la forma umana con cui si raffiguravano gli dèi non implica un declassamento del divino, semmai un innalzamento dell’uomo, che è stato pur fatto ‒ secondo la Bibbia, mica a detta di Omero ‒ a immagine di Dio. Non a caso, sempre restando in ambito giudaico-cristiano, la divinità si accosta all’uomo giusto tramite un corpo/volto umano (quello di Gesù: Figlio del creatore).

Ritengo in effetti che possa venir considerata ancora tutto sommato politeistica la visione trinitaria o suddivisione di Dio in tre distinte Persone, al cui dogma molti fedeli peraltro non prestano più fede. Un po’ come è accaduto rispetto agli antichi dèi, dai quali ‒ con buona pace di Otto ‒ noi europei ci siamo definitivamente congedati.

Walter F. Otto,

Teofania. Lo spirito della religione greca antica

Adelphi, 2021

pp.184, euro 15,00

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