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Teneri carnivori
di Francesco Roat
L’antropocene ‒ tale vocabolo, coniato dal chimico nonché premio Nobel olandese Paul Crutzen, deriva dall’unione dei termini greci antropos e kainos (uomo e nuovo/recente) ‒ indica l’attuale epoca geologica, in cui l’ambiente del nostro pianeta viene fortemente influenzato dagli effetti delle azioni/produzioni sempre più inquinanti del cosiddetto homo sapiens (che secondo Edgar Morin andrebbe chiamato homo demens); valga ‒ ad esempio – anche solo l’aumento crescente ovunque della temperatura e quello delle concentrazioni di anidride carbonica e metano nell’atmosfera terrestre.
Ma quando ha avuto inizio l’antropocene? Gli scienziati sino ad ora non hanno trovato un accordo sulla data di nascita di quest’epoca dissennata; ma c’è chi come lo zoologo e naturalista americano Paul Shepard ritiene che l’avvio di essa sia antichissimo, preceda la storia e si collochi appunto nella preistoria; per la precisione nell’età neolitica (ossia della pietra nuova-levigata), successiva alla più antica età paleolitica (ossia della pietra antica-scheggiata): quando gli esseri umani, che sino a quel periodo erano solo cacciatori e raccoglitori di piante o frutti spontanei, mutarono stile di vita per divenire soprattutto agricoltori e pastori. È in questa seconda età della preistoria dunque che, secondo Shepard, ha preso avvio l’attacco agli ecosistemi della Terra, in un deterioramento progressivo che non s’è mai più concluso.
La descrizione che ne dà lo studioso statunitense appare davvero drammatica e al contempo impietosa: “Ovunque, sul pianeta l’agricoltura è stata una forza cieca che scavando e riempendo ha generato dune di sabbia e aggravato i danni causati dal vento, ha abbassato il livello delle falde acquifere, ha aumentato le inondazioni, alterato la composizione della flora e della fauna, e impoverito la stabilità e le qualità nutritive degli ecosistemi”. Ma non basta. A detta di Shepard gli agricoltori introdussero un modello produttivista/efficientista che fu all’origine della società di tipo patriarcale, colonizzatrice e gerarchica a tutt’oggi ancora egemone.
Si dirà che questa tesi così radicale è sin troppo semplificatrice ed estremistica; resta il fatto che è merito di questo scienziato-filosofo aver mostrato come l’Antropocene non sia dovuto esclusivamente alle conseguenze deleterie della moderna industrializzazione, ma abbia avuto quantomeno una lunghissima gestazione: iniziata forse giusto alcune migliaia di anni orsono. Il problema, allora, è renderci conto che la realtà ambientale che abbiamo modificato risulta nefasta e letteralmente invivibile. Occorre quindi all’uomo ridiventare sapiens dal demens che è stato per troppo tempo. Ciò non significa un ritorno inconcepibile al paleolitico, ma comporta ripensare la nostra cultura antropocentrica e tecnocratica, prima che sia troppo tardi per farlo.
Ed è comunque affascinante e inedito il modo con cui Shepard descrive il periodo che precede l’Antropocene, nonché il suo amore per una realtà naturale non ancora violentata dai padroni del mondo, visto che l’uomo cacciatore-raccoglitore non conosceva la proprietà privata del suolo che inaugureranno i contadini. È altresì interessante vedere come per questo vero e proprio antropologo l’idea di progresso come è stata concepita nella modernità appare oggi illusoria o assai discutibile. Ecco, a tale proposito, due brani esemplificatori, tratti dal suo saggio visionario Teneri carnivori:
‒ “La vita dei cacciatori umani del Paleolitico non deve essere immaginata come la gara contro la morte che la cultura agroindustriale presuppone. Il cacciatore trascorreva la maggior parte del tempo in attività diverse dall’inseguimento e dall’uccisione. Non era nemmeno una vittima indifesa, messa all’angolo sul suo albero o nella grotta da predatori affamati. Si dovrebbe invece pensare a lui come a un uomo asciutto e muscoloso, sdraiato su una cresta soleggiata tra i fiori della tundra, che osserva una mandria lontana”.
‒ “Tra le popolazioni di cacciatori-raccoglitori molto tempo viene dedicato alla musica. Alcune tribù di Aborigeni australiani cantano e suonano strumenti due volte al giorno e queste attività impegnano ogni persona in diverse ore di musica. Se a questo si aggiunge il tempo dedicato al canto cerimoniale, alla narrazione di miti e al racconto di esperienze personali, è evidente quanto il suono sia predominante nella loro vita. Essere orientati al suono, dice il linguista americano Walter J. Ong significa essere agli antipodi del moderno idealista platonico, orientato alla stampa”.
Un’ultima considerazione, per concludere, intorno alle pagine finali di questo libro originalissimo che assume quasi il tono narrativo d’un romanzo tra l’utopistico e il distopico e che auspica/immagina nel futuro l’abbandono definitivo delle metropoli al cui posto potrebbe sorgere tutta una serie di piccole città, disposte lungo il perimetro costiero dei vari continenti; mentre l’entroterra del pianeta si dovrebbe lasciare a completa disposizione di animali e vegetali: in misura sufficiente a soddisfare le esigenze dei novelli cacciatori e raccoglitori umani (a cui sarà permesso coltivare solo piccoli orti o prendersi cura di altrettanto limitati giardini).
Sogno oltremodo fantastico, chimerico, inattuabile forse. Meglio tuttavia dell’incubo di una probabile estinzione della nostra specie.
Paul Shepard, Teneri carnivori. Cacciatori e selvaggina sacra, Meltemi editore, 2023, pp. 362, euro 20,00
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