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Sulla sofferenza. Per un «amabile dovere di crescere»
di Francesco Roat
L’uomo occidentale (o occidentalizzato) in genere non ha un buon rapporto con il dolore. Qualunque tipo di sofferenza ‒ anche minima, come un mal di testa o un raffreddore ‒ va subito combattuta allo scopo di eliminarla il più in fretta possibile tramite questo o quel farmaco; anche se forse, spesso, basterebbe lasciare che essa passasse, che ci visitasse per poi lasciarci. Non sto dicendo che è bene soffrire; piuttosto che non è sempre un bene opporvisi con tutti i mezzi possibili ed a qualunque costo. Noi contemporanei abbiamo infatti uno spontaneo ma deciso moto di rifiuto per ogni forma di disagio, malessere, situazione ritenuta sfavorevole.
Non conosciamo ‒ come invece accadeva a molti, in passato ‒ la pazienza e la forza di abitare le varie forme di dolore che la vita necessariamente comporta. Eppure, quantomeno, gli antichi filosofi sostenevano che pathos (patimento) equivale a e produce mathos (conoscenza), costituendo un inevitabile ‒ e auspicabile ‒ processo di crescita. E giusto sul tema della sofferenza quale ambito pedagogico si interrogano, in un pregevole saggio a quattro mani, lo psicoterapeuta Vito Antonio Amodio e il counselor Edmondo Cesarini, convinti entrambi che essa: “possa «educarci», tirarci fuori da noi stessi, farci crescere, portarci alla piena realizzazione della nostra umanità e del nostri essere persona”.
Ovviamente qui non si parla solo dei mali di natura fisica: delle malattie corporee, ma anche (e soprattutto) del malessere psichico, oltre a quello che potremmo chiamare esistenziale, legato al disagio o al male di vivere. Comunque la si pensi, un dato è innegabile. In qualunque forma/modalità si presenti, la sofferenza è attrice protagonista del dramma umano; non fosse altro per il fatto che siamo esseri fragili, vulnerabili, precari e segnati dalla finitudine. Si soffre peraltro anche quando in apparenza tutto procede normalmente, ma un’inquietudine si insinua nella quotidianità; il lavoro, le relazioni, gli affetti, persino i momenti di svago non soddisfano più ed ogni cosa ‒ esistenza compresa ‒ sembra perdere di significato e rivelarsi vana.
Ma giusto allora, notano i due autori, è il momento per rendersi conto che forse il modo per guarire dalle proprie ferite non sta tanto nel pretendere/ottenere altro per il proprio ego, quanto nel rivolgersi all’altro e all’altrove rispetto a sé, cercando di dare una risposta ad una domanda cruciale: “che cosa posso dare io alla vita, qui e ora, nel momento storico nel quale sono chiamato a esercitare responsabilmente la mia libertà soggettiva. Si tratta del capovolgimento di un atteggiamento che richiama l’impegno di sé, della propria soggettività, a fuoriuscire dallo stato di rassegnazione, tutto arroccato sulla retorica se la vita abbia o no un senso”.
È scontato come non sia possibile dare una risposta univoca/generica a tale basilare interrogativo; ognuno dovrà trovarla individualmente, accettando in primo luogo che qualunque disagio comporta una possibile spinta al cambiamento di prospettiva su noi stessi, il mondo e il nostro prossimo. Qualcosa non va? Invece di lagnarci, cerchiamo di accettare questo dato di fatto, sia esso la fine di un rapporto sentimentale, la perdita di un impiego, una malattia e chi più ne ha più ne metta. Solo a tale condizione infatti sarà fattibile un mutamento proficuo. Ricordando che: “L’apertura verso il fuori da sé permette il distacco dalla propria autoreferenzialità e il dispiegarsi dell’incessante forza creatrice dell’amore”.
Un’apertura salutifera che riesca a vedere in ogni fatto negativo il positivo dato dalla possibilità di lasciare la via vecchia per la nuova, di trasformarci, di crescere proprio grazie alle nostre sofferenze, che non vanno eluse, esorcizzate, anestetizzate bensì affrontate. Potremmo dire, come fanno Amodio e Cesarini, che forse occorre soprattutto avere fede: intesa quale fiducia nella propria intuizione soccorritrice o in quel mistero che è la vita; o altresì nella natura quale forza perennemente creatrice e innovatrice. Il credente confiderà in Dio, il laico lo potrebbe fare nei confronti di quella dynamis, di quella potenza o energia metamorfizzante riscontrabile ovunque: dentro e fuori di sé.
Il saggio dei nostri due autori si conclude infine con una breve appendice antologica, la quale propone la testimonianza di alcuni celebri scrittori che, avendo sperimentato la sofferenza senza cedere alla disperazione, costituiscono un esempio per tutti quanti noi. Si tratta di Pavel A. Florenskij, Teilhard de Chardin e, non da ultimo, di Etty Hillesum e Viktor Frankl che hanno sofferto l’inferno di Auschwitz. Bastino dunque queste brevi parole di chi è ricordato come uno psicologo nei lager (dal titolo della sua opera più significativa), dove Frankl afferma che, pure “in una situazione umanamente disperata” e per chiunque: “Ciò che conta è l’atteggiamento che egli assume nei confronti di un destino inevitabile e ineluttabile. Solo l’atteggiamento e l’impostazione giusti di fronte al destino consentono all’uomo di testimoniare ciò di cui egli soltanto è capace: trasformare il dolore in una realizzazione”.
A. Amodio, E. Cesarini, Sulla sofferenza. Per un «amabile dovere di crescere»
Gabrielli editori, San Pietri in Cariano (VR) 2023, pp. 105, euro 15,00

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