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Sofferenza creativa

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di Francesco Roat

 

La russa Iulia de Beausobre (1893-1977) fu una scrittrice, nonché una cristiana fervente, la quale molto ebbe a soffrire in patria ‒ come d’altronde tantissimi altri intellettuali non allineati al regime comunista ‒ dalla fine della prima guerra mondiale sino al 1934: anno in cui lasciò il proprio Paese per riparare in Inghilterra, a seguito d’un periodo di penose traversie, iniziato dapprima con l’arresto del marito (poi passato per le armi) e quindi col suo: fra prigionia, lavori forzati e esilio. È in questa fase amara della propria esistenza che Iulia inizia una personalissima elaborazione del concetto di sofferenza creativa che la condurrà, nel 1940, a scrivere il breve ma intenso saggio intitolato appunto Creative Suffering, recentemente/finalmente tradotto in italiano e commentato da Alessia Brombin, studiosa di spiritualità orientale e letteratura patristica greca.

Il testo della ex-perseguitata inizia a partire da una considerazione che dovrebbe essere ben chiara a tutti e meditata spesso: “La sofferenza attraversa integralmente la struttura della vita umana”. In primo luogo c’è poco da illudersi di esorcizzarla o aggirarla: essa va sempre, più o meno dolorosamente, affrontata e mai anestetizzata; in secondo luogo non andrebbe intesa quale evento esclusivamente negativo: da eliminare/sedare il più presto possibile. Come a dire: nella sofferenza abitano eventualità benefiche che sta a noi far emergere. Eppure, in generale, le persone ‒ nota de Beausobre: “fuggono di fronte a qualsiasi tentativo di valutazione di questa esperienza, inoltre, essendo abituate a considerare tutto questo come morboso, sarebbero più propense a definire come masochistica qualsiasi discussione sul suo lato più luminoso e sulle sue possibilità creative”.

Sin dall’antichità sono stati soprattutto i mistici a suggerire un diverso approccio alla sofferenza, indicando un modo di porsi nei suoi confronti che ancora oggi suscita spesso perplessità se non un netto rifiuto. Tale approccio è basato infatti sull’accettazione della realtà – anche se dolorosa ‒, sull’accoglienza non pregiudiziale di tutto quanto accade, cercando di scorgere in ogni evento apparentemente malefico la possibilità di trasmutarlo in bene. Implica un disporsi a vivere qualunque situazione con animo sereno e a cuore aperto: senza giudicarla e condannarla prima di averla esperita e mediante una disponibilità all’insegna dell’amore, inteso quale apertura totale nei confronti di ogni cosa, persona, situazione.

L’autrice cita a tale proposito una frase emblematica di Berdiaev: il paradosso della sofferenza e del male si risolve nell’esperienza della compassione e dell’amore. Occorre però abdicare all’egocentrismo o, per dirla coi mistici: morire a se stessi ancor prima della morte, onde poter rinascere spiritualmente già in questa vita, disponendosi fiduciosi (in Dio, nella vita) non solo a gioire ma pure a patire e, giusto grazie ad un tal modo di porsi, a superare qualsivoglia patimento. Occorre inoltre lasciar andare l’inessenziale ed altresì non avere un atteggiamento di repulsione contro i mali che subiamo, né contro coloro i quali ce li causano. Nessun odio/rancore quindi nei confronti di avversari od ostili, sulla scia dell’esempio di Gesù crocifisso (Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno – Lc 23,34). Non violenza, tolleranza, pazienza nel senso etimologico del termine, insomma.

Una figura tradizional-popolare russa che l’autrice presenta ai lettori per illustrare quanto sopra è quella dello jurodivyi: il folle, povero e senza fissa dimora, che pur disprezzato e angariato, è ricco di una autenticità morale e spirituale che gli permettono di attraversare la sofferenza/indigenza senza venirne sopraffatto. Ma non solo. Egli: “scorge la pietà, e lo Spirito, risplendere da tutto ciò che vi è di più vile e peggiore: dalla polvere della strada, dalle pietre appuntite che gli tagliano i piedi, dalle spine che gli lacerano la carne, dal gelo pungente dell’inverno, dal caldo eccessivo dell’estate, dal fetore proveniente dai ricoveri, dagli uomini e donne più degradati. Partecipa a tutto il male e alla degradazione, e crede fermamente che così facendo contribuisce al grande dramma della redenzione”. Ciò che egli ha interiormente intuito è che il male non ha da essere evitato/scongiurato bensì patito e compreso per poi poter venire trasceso.

Dallo jurodivyi de Beausobre passa poi a parlare del perseguitato politico russo coevo, anzi dell’internato nelle prigioni e nei gulag sovietici, dove impera ‒ da parte carcerieri ‒ un comportamento sadico e disumanizzante. Oltremodo difficile è per la vittima non venire annichilita e salvarsi. Prendendo le mosse dal messaggio cristico e dall’esperienza mistica, l’autrice ritiene però che l’accettazione piena della propria sofferenza aiuti a sopportarne il peso e a trasmutarla in pace. Accanto ad essa emerge dal testo un ulteriore scandaloso suggerimento: provare comprensione, simpatia benevola per chi ci fa soffrire, cercando di vedere nell’altro ‒ in ogni altro ‒ un essere umano, un figlio di Dio, un fratello da amare.

Iulia de Beausobre, Sofferenza creativa, Graphe.it Edizioni, 2023, pp. 53, euro 10,90

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