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Lo Zibaldone

Se solo il mio cuore fosse pietra

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di Bernardina Moriconi

Dopo aver ricostruito – diciannove anni e quindici ristampe fa – in Meglio non sapere (Laterza) la storia del piccolo Sergio De Simone, prelevato dal campo di concentramento di Auschwitz in cui era internato e utilizzato assieme ad altri diciannove bambini per sperimentazioni pseudoscientifiche da parte di medici nazisti, la giornalista e scrittrice Titti Marrone col suo nuovo libro Se solo il mio cuore fosse pietra torna a parlare della shoah incentrando nuovamente l’attenzione sui più piccoli. Ancora una volta infatti sono i bambini i protagonisti di questa storia, e precisamente venticinque bambini, di età compresa fra i quattro e i quindici anni, che però lager ed aguzzini non sono riusciti a piegare e che pur essendo scesi nell’antro più oscuro dell’inferno sono tornati alfine a riveder le stelle: feriti, marchiati nel fisico e nello spirito, delusi e disillusi come mai dovrebbero essere i più indifesi del consorzio umano, spaventati e sospettosi, eppure vivi, malgrado tutto e contro tutti coloro che la loro infanzia l’hanno per sempre cancellata. E per raccontare il percorso di rinascita e di riappropriazione di una parvenza di normalità, la giornalista sceglie la strada narrativa che forse le appare meno impervia, data l’incandescenza della materia trattata, quella cioè del romanzo: un modo per addolcire e diluire attraverso una narrazione organica e distesa ciò che per sua essenza si presenta scardinato e scabro.
E se già Dante ci aveva mostrato che un percorso di risalita dagli inferi non può avvenire senza il sostegno di adeguate guide, qui tale delicatissimo ruolo è svolto da un team di giovani psicoterapeuti e volontari coordinati da Anna Freud, sì, proprio la figlia del grande Sigmund, papà della psicanalisi (nonché ebreo), e della sua collaboratrice in loco Alice Goldberger.
La vicenda ha come sfondo l’imponente residenza di campagna di sir Benjamin Drage che vive stabilmente a Londra e solo occasionalmente o nei fine settimana si reca nella grande casa dove riserva per sé e famiglia alcuni ambienti, affidando il corpo principale della dimora all’équipe che la trasforma in luogo caldo di accoglienza per i piccoli ospiti che in più riprese vi si stabiliranno. Ospiti differenti non solo per età, lingua, paese di origine, ma anche per luogo di provenienza e modalità di detenzione: alcuni di essi erano internati nei campi di concentramento di Terezìn e di Auschwitz, altri erano riparati in orfanotrofi e conventi, qualcuno era sopravvissuto rimanendo occultato in solitudine per mesi se non per anni in nascondigli improvvisati e impervi.
Il luogo è ameno e il gruppo di esperte è volenteroso e addirittura entusiasta, ma fin da subito appare con drammatica evidenza la complessità dell’impresa: se sempre lavorare coi bambini e adolescenti non è cosa facile, qui le difficoltà sono moltiplicate anche per le diversità cui si accennava sopra, ma soprattutto per la diffidenza che si fa terrore nei piccoli ospiti che non riescono a immaginare di confrontarsi con un mondo di adulti che non siano crudeli e subdoli. I lettini caldi e accoglienti, la stanza dei balocchi, la cucina apparecchiata con prelibatezze inaudite non suscitano nei nuovi arrivati – e per diverso tempo – l’entusiasmo che ci si aspetta: al letto morbido preferiscono il pavimento magari infilandosi al di sotto del letto per un ormai radicato istinto di difesa, il cibo solido non sono abituati a masticarlo e tanto meno ad apprezzarlo, le posate pulite e lucenti le ignorano: e come posata ciascuno dei bambini dei lager tira fuori l’ unico bene prezioso: un cucchiaio sporco e distorto che durante il periodo di prigionia dovevano accudire e nascondere perché perdendolo non avrebbero potuto sorbire la pietanza giornaliera: una sbobba brodosa e rancida alla quale se riuscivano accompagnavano qualche pezzetto di pane nero, spesso ammuffito perché occultato anche per giorni dopo averlo conteso ai cani o strappato ai topi. E infatti qualche leccornia viene tutt’al più arraffata e nascosta secondo quella prassi della sopravvivenza che li portava a conservare qualcosa per i momenti di estremo bisogno.
Il percorso è lungo e a ostacoli, ognuno dei bambini della comunità – che la Marrone identifica con il nome, l’età approssimativa e qualche particolare distintivo – ha una propria storia e propri mostri da sbaragliare: si procede a piccoli passi, con lenti progressi e inevitabili regressi che provocano nei componenti del team dubbi, senso di inadeguatezza, paura di fallire, ma sempre si riesce ad andare avanti, grazie anche al confronto epistolare con la Freud, che spesso viene in visita a controllare verificare consigliare, soprattutto confortare e assicurare le operatrici della bontà del loro operato che non manca di avere echi e risonanza nelle zone circostanti prima, nel resto del mondo subito dopo.
Il reinserimento è difficile: un primo passo è farli uscire dalla villa prima che diventi una nuova sorta di prigione dorata e poi è necessario mandarli a scuola: alcuni di loro sono entusiasti e non si stancano di aprire e chiudere gli astucci per le matite che hanno avuto in dotazione: ma il pullmino giallo che deve condurli a scuola evoca in alcuni il terrore di essere ricondotti nei campi di concentramento e la paura e il caos dilagano tra tutti i piccoli scolaretti e alcuni si placheranno solo quando anche le assistenti saliranno nel pullmino con loro.
Già, le paure: di cui i piccoli non vogliono parlare ma che trapelano attraverso sogni o disegni, paure diversissime perché diverse sono le esperienze drammatiche di ciascuno, ma c’è un medesimo terrore che serpeggia tra i giovanissimi ospiti della villa: che tutto ciò che stanno vivendo sia fittizio, che Hitler non sia morto, che perfino la grande casa che li ospita sia una copertura di cartone destinata presto a crollare facendoli ripiombare nella precedente condizione di freddo, di fame, di orrore. Per tutto questo è necessario passare alla fase successiva e delicata delle sedute di analisi, continuando freneticamente nella ricerca di familiari ancora in vita cui riaffidare i bambini o di famiglie disponibili all’adozione. Dei venticinque piccoli ospiti solo le sorelline italiane Tatiana e Andra Bucci troveranno il papà e la mamma, anche loro miracolosamente scampati alla morte, e qui la storia di questo nuovo libro di Marrone si collega al precedente: Tatiana e Andra sono infatti le cuginette del piccolo Sergio De Simone, di cui per anni si ignora la terribile sorte toccatagli, di essere diventato cavia di sperimentazioni e di essere stato poi eliminato e fatto sparire assieme agli altri bambini del gruppo perché non ci fossero tracce di queste ulteriori inutili atrocità naziste. Ma se le crudeltà della storia non si cancellano, il suo racconto ci permette di sapere e di ricordare. E a Titti Marrone va questo merito: attraverso mesi di ricerche in archivi e giornali, spulciando fra lettere, foto, diari, ha recuperato e restituito alla memoria storica volti nomi vicende dei bambini che la shoah non è riuscita a piegare.

Titti Marrone

Se solo il mio cuore fosse pietra

Feltrinelli, 2021

euro 17,50

 

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