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Lo Zibaldone

Risposta a Dante

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di Francesco Roat

Durante quest’anno di celebrazioni dantesche, intorno al poeta italiano per antonomasia, innumerevoli sono stati i testi ormai dati alle stampe. Tra di essi merita senz’altro un encomio l’interessante riflessione dello psicoterapeuta e musicoterapeuta Giorgio Moschetti, intitolata Risposta a Dante, dove appunto l’autore intende rispondere all’Alighieri, il quale, con la sua Commedia, gli avrebbe consentito ‒ come riconosce francamente l’autore ‒ di: “illuminare le mie esperienze in hac vita” (in questa vita), relativamente ad ambiti cruciali, che potremmo chiamare: della desolazione (inferno), della quotidianità (purgatorio) e della pienezza (paradiso). Una triplice e parallela ripartizione utilizzata da Moschetti nel suo colloquio amichevole con Dante per alludere alle possibilità con cui possiamo guardare all’esistenza, che può rivelarsi ‒ a seconda delle nostre scelte o non scelte ‒ ora deprecabile selva oscura, ora luogo di tedioso disagio, ora condizione davvero paradisiaca, se essa viene assunta come: “pienezza di manifestazione della persona”.

Partendo dall’analisi del primo verso del capolavoro dantesco (Nel mezzo del cammin di nostra vita), viene espresso da Moschetti un sincero/umile grazie al grande Fiorentino per l’utilizzo di tale aggettivo declinato al plurale, in quanto lo smarrimento di cui si parla nella Commedia non si riferisce solo alla singola persona di Dante bensì all’uomo in generale, continuamente a rischio di perdersi e sempre incline ad errare, nel duplice significato di un verbo che indica insieme l’atto della peregrinazione e della fallacia. Ammette dunque l’interlocutore del poeta ‒ utilizzando in modo simpatico/empatico la prima persona, ma rivolgendosi al contempo a un tu che rimanda pure a un noi ‒: “Mi posso perdere per gli eventi della vita, la parola che il Mondo mi rivolge talvolta è così dura, il dolore così aspro e forte che rischio di perdermi, la tempesta mi travolge e non mi ritrovo più”.

Alludendo alla selva dantesca, Moschetti preferisce oggi rinominarla crisi, che qui non è certo solo evento negativo, se il termine greco krisis significa discernimento, decisione e scelta. Si tratta allora, in ogni fase critica ‒ conseguente a perdite, sofferenze, sconfitte, ecc. ‒, di ritrovare/riaprirsi la via o di individuarne altre, non ancora percorse o da ripercorrere con animo altro; in quanto molto: “Dipende da noi. Dipende dalla nostra risposta. Forse lo dimentichiamo ma ognuno di noi è sempre un piccolo dio, perché il suo sguardo è un Mondo, un universo, perché guardando la realtà la organizza e ne fa un Mondo”. Essendo ciascuno un attore, nel senso proprio del termine, un soggetto capace comunque di agire e reagire.

Ovvio che le belve che si aggirano per la selva dantesca incutano sgomento/inquietudine e possano ostacolare il nostro cammino, sia pur risoluto a riveder le stelle. Come la lonza, simbolo di lussuria, che vista con gli occhi disincantati della postmodernità, manifesta la tendenza a considerare i partner esclusivamente quali oggetti del proprio piacere, reificandoli; ed in questo – dice bene il nostro psicologo – essa: “è solitudine estrema e morte della relazione; o il leone, figura araldica del potere, di ogni potere che, fine a se stesso, implica brama di dominio e prevaricazione; o infine come la lupa: “bestia magra, insaziabile di tutti i desideri possibili!”. Bisogna, oggi come un tempo, guardarsi bene sia da queste tendenze egocentriche e sia dai paralizzanti timori di affrontare le difficoltà. Per giungere a liberarci da tali limiti ‒ nota ancora Moschetti ‒ può essere d’ausilio la poesia (non a caso è un poeta, Virgilio, ad assistere Dante nella selva), in grado di fornirci un’ancora di salvezza, impedendoci di franare in basso loco. La poesia con la sua bellezza e la sua gratuità; con le sue metafore che talvolta riescono a suggerire ciò che ogni altro discorso ‒ razionale o scientifico ‒ non riesce a fare.

Anche perché, rifacendosi a Jung, Moschetti ammonisce il lettore di badare ad un ulteriore pericolo solitamente sottovalutato dai più: quello dell’inflazione e/o della saccenza. Ogni sapere, infatti, è a rischio di quella che gli antichi chiamavano hybris: tracotanza, illusione di saperla lunga e di tutto comprendere, controllare, risolvere. La parola poetica, invece, è allusiva, evoc—-

ativa, simbolica. Guai prenderla alla lettera, però! Altrimenti inferno, purgatorio e paradiso si riducono a dimensioni irreali o assai improbabili. E l’itinerario prospettato da Dante pura fantasia; quando piuttosto esso è una chiaroveggenza; è semmai rispondere ad una vocazione che lo invita a cercare la pienezza spirituale, al di là di ogni piccolo o grande desiderio, in un viaggio, al di là del tempo e dello spazio, che è anelito alla salvezza/salute, la quale può anche venir colta da ognuno di noi ‒ è l’ultima citazione dal libro di Moschetti, che ritengo costituisca solo la prima parte di un dialogo da proseguire ‒ all’insegna della “felicità come unità profonda fra me e il Mondo”.

Giorgio Moschetti

Risposta a Dante. Inventio I

Moretti&Vitali, 2021

pp. 98, euro 10.00

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