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Da sempre, post fa parte del nostro vocabolario, assumendo e privilegiando, a seconda del periodo, un significato diverso nella composizione di parole diverse. Esaminando il suo uso dagli anni Settanta ad oggi, possiamo fare qualche considerazione sulla nostra epoca.

di Irene Toppetta

Postbellico, postmoderno, postcapitalismo… in ambito culturale di post si è fatto un grande uso.
Pensiamo, in particolare, al periodo che va dagli anni Settanta ad oggi. Postmoderno è un termine che si impone alla fine degli anni Settanta. In quel periodo, si iniziava ad avvertire l’esigenza di essere sempre aggiornati, di rincorrere un mondo che andava sempre più velocemente, innescando una sorta di ansia e di paura di restare indietro (quella sensazione a cui oggi, in fondo, siamo un po’ abituati).

Il postmoderno è passato dall’architettura (abbandono delle linee rette per forme più sinuose e imperfette) alla filosofia (caduta delle grandi strutture ideologiche).
La condizione postmoderna di Jean-François Lyotard è del 1979 (Jean-François Lyotard, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, Feltrinelli). Per il filosofo francese, la condizione postmoderna rappresenta la conseguenza della caduta dei fondamenti della modernità, ovvero di quei sistemi ideologici che, a partire dall’Illuminismo, hanno ispirato le credenze della cultura occidentale, basate sull’idea di progresso. Nell’età contemporanea, i “grandi racconti” lasciano il posto a più modesti discorsi pragmatici.
Per esprimere la condizione di disagio derivata dalla crisi della modernità, non si è utilizzato solo il termine postmodernità. Ad esempio, Bauman ha parlato di modernità liquida (Zygmunt Bauman, Modernità liquida, Laterza), concetto con il quale ha abbracciato tutta la complessità di un periodo caratterizzato dalla precarietà. Ci sono poi correnti filosofiche come il decostruzionismo di Derrida, il pensiero debole di Vattimo e Rovatti, che, riallacciandosi al pensiero di Nietzche ed Heidegger, riflettono sul nuovo clima.

L’uomo postmoderno si colloca, in un certo senso, fuori dalla storia, tanto che nel 1989 Francis Fukuyama parlava di “fine della storia” (Francis Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, BUR).
Tuttavia, oggi parlare di postmoderno sembra qualcosa di superato; la società odierna appare profondamente cambiata da ciò che è accaduto negli ultimi anni. La crisi economica del 2008, infatti, ha determinato dei cambiamenti con cui il mondo intellettuale deve fare i conti: si avverte l’esigenza di termini nuovi, capaci di decodificare questa realtà.
La crisi ci ha dimostrato che quello capitalistico non è un modello infallibile.
C’è chi sostiene, come l’economista Robert Reich (ex ministro del lavoro statunitense) che lo strapotere di pochi grandi gruppi abbia modificato quello che era lo spirito originario della libera iniziativa. Il problema risiederebbe, quindi, nell’organizzazione del mercato: se il capitalismo “non funziona” più, occorre cambiare le regole. In Come salvare il capitalismo, appena uscito per Fazi, Reich parla dell’esigenza di una distribuzione più equa già nella fase di produzione della ricchezza. I cittadini devono recuperare potere per bilanciare lo strapotere dei super ricchi. Secondo Reich, il capitalismo può essere salvato dai suoi eccessi attraverso correzioni necessarie. Data la vicinanza di Reich ai Clinton, il suo saggio sarà sicuramente oggetto di discussione durante la prossima campagna presidenziale negli Usa.
Bisogna fare i conti con l’impatto della tecnologia sul mercato: economia digitale, start up, servizi erogati a richiesta da personale che non ha più orari fissi…tutto all’insegna della velocità, ma anche della precarietà. Non si può essere così ingenui da non rendersi conto che questo modello comporta delle conseguenze nell’approccio stesso delle persone alla loro vita. Fare programmi sembra ormai un’utopia per i trentenni di oggi alle prese con lavori precari. Questo ha un suo peso, inutile negarlo.
Tutto ci appare nella sua più estrema imponderabilità. Ma, in fondo, non c’è da stupirsi. Lo aveva già detto Heisenberg nel 1927, con il suo principio di indeterminazione, che, in meccanica quantistica, stabilisce i limiti della conoscenza o determinazione dei valori che grandezze fisiche coniugate assumono contemporaneamente in un sistema fisico. Questo principio ha comportato implicazioni rivoluzionarie a livello epistemologico, in quanto stabilisce l’impossibilità da parte della scienza di giungere ad una conoscenza della realtà totalmente deterministica, aprendo così la strada all’incertezza (W. Heisenberg, Indeterminazione e realtà, Napoli, Guida 1991).

Torniamo ora a post e alle sue implicazioni con il capitalismo.
Di prossima uscita in Italia per Il Saggiatore è PostCapitalism A Guide to Our Future di Paul Mason, che in Inghilterra, a un mese dalla pubblicazione presso l’editrice Allen Lane, sta già creando un dibattito acceso. Secondo Mason, l’attuale capitalismo finanziario sta per giungere al suo termine, e si prepara una fase di postcapitalismo. Insieme al postcapitalismo emergerà un nuovo tipo di umanità. Grazie ai cambiamenti introdotti dalla rivoluzione informatica, ci sarà una nuova economia basata su modelli di tipo associativo. Il monopolio dell’informazione è l’ultimo muro da abbattere: se ci si riuscirà, l’economia sarà sempre più sostenibile e il potere sarà gestito dalla società civile, in caso contrario dominerà il caos.
Di economia parla anche Papa Francesco, che oggi rappresenta una delle poche voci ascoltate. Il Papa invita a far crescere l’economia dell’onestà, esaltando il modello cooperativo, in cui non è il capitale a comandare sugli uomini, ma il contrario. Nell’incontro del 12 settembre con un gruppo di dipendenti delle banche cooperative, il Pontefice ha parlato di microcredito, di un uso responsabile del denaro, volto ad incentivare il lavoro, dell’esigenza di nuove forme di welfare, di sostegno reale alle famiglie.

Le riflessioni e le proposte sono molteplici. Denominatore comune è l’esigenza di un’economia più a misura d’uomo in questa nostra epoca che forse è così difficile da definire perché è ancora difficile da decodificare, per via del suo carattere sfuggente. Vorremmo tutti poter parlare di “post crisi”, ma, nonostante qualche miglioramento, non si avverte ancora un vero nuovo clima di slancio.
Concludendo, mi sembra che, più che un “periodo post” qualcosa, questo sia un “periodo di post” su Internet: molte persone, infatti, si esprimono sul web attraverso i post, messaggi testuali inviati in uno spazio comune per essere pubblicati. Da quello che si legge, risulta evidente che c’è voglia di partecipazione da parte dei cittadini sui temi di interesse generale. E forse, chissà, uno di questi giorni, qualcuno pubblicherà un post dove ci sarà la definizione di ciò che stiamo vivendo.

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