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Poema crudele

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di Gisella Blanco

Il “Poema crudele” di Edoardo Monti (Sovera Editore) inizia dalla copertina con un disegno dell’autore che inchioda un cervello alla croce: scende del sangue lì dove i chiodi trafiggono il reticolo della materia cerebrale in cui sono presenti le ombre di una bidimensionalità che risulta assente nei legni incrociati. “Versiliberista moderato” si auto definisce Monti nella prima pagina del libro, anche se non modererà la percezione del dramma esistenziale che gronda da tutti i suoi versi. Ed è proprio sulla percezione che si svolge il poema, una percezione atavica e, contemporaneamente, moderna che invade la pagina ed evade da ogni possibile misura.

“Sembra la morte/la mia stanza se la vedi/buia dietro la sagoma della porta,/mentre di trovi/a pochi passi fuori da questa/di notte” inizia a scrivere l’autore illudendo a un dialogo impossibile e, cioè, un perpetuo monologo con se stesso. La dimensione personalistica e privata, perfino domestica in alcune poesie, si allarga continuamente in una prospettiva esterna ove indagare il senso di ciò che non si comprende: “Rinfrangi il tempo/ che ora subdolo t’inganna,/nella penombra di queste mura;/rinfrangi, accecalo, ed allora/non morirai soltanto di te stesso”.

Ricorre il topos della stanza come superficie dell’interiorità, volume d’intuizione, microclima necessario alla sopravvivenza del suo abitante: “Poetare/con solo nel vento questo aroma,/senza più luce finalmente/nella mia stanza tornata come un tempo;/illuminata da quel solo/presente che le dà vita,/che è la strada dei lampioni;/la strada fredda della domenica”. Nell’accoglimento consapevole di ascendenze crepuscolari, Monti si mostra sensibile alla possibilità che la visione venga dal buio e che la scintilla torni ad accendersi soltanto attraverso una fitta oscurità. Ma cos’è tutto questo buio? Aldo Onorati, nella postfazione, parla di depressione e, certamente, la crudeltà di questo poema appartiene alla tenebra esistenziale che avvolge l’ottica più nitida e sincera dello scrivere ma, forse, nella versificazione di Monti, mai assuefatta all’abitudine, c’è qualcosa che si accosta al pessimismo montaliano, sfiora la nostalgia tormentata di Caproni, rievoca il senso di estraneità decadentista rispetto alla società, stride del livore virtuoso della rivolta pasoliniana e intraprende una personale, ben individuata strada esistenziale. Il frammento memoriale e quello biografico si riuniscono al cospetto di una tensione romantica che non soggiace alla stucchevolezza e s’impenna dove il dolore preme sul petto e non fa respirare: “La realtà è che quegli occhi/sono quelli che ho davvero:/io cinico, io ridotto/io al massacro del mio amore”. L’uso incrementale del primo pronome personale è un climax ascendente che sancisce un pathos intrinseco al verso, all’immagine e al suono della strofa mostrando come lo sgomento si possa sviluppare nel linguaggio per diventare discorso. La presenza di un Dio con l’iniziale maiuscola e l’epifania di una mutevolezza che lo rende poco credibile – o incredibile- è il contraltare ideologico di una sottile e tagliente polemica sociale, pienamente integrata al contesto letterale e letterario fruibile nell’opera nella sua interezza: “Quado la piazza pregherà quel nuovo Dio/(l’ennesimo) e si muoverà a offrirtelo/come una nuova parola di conforto” e ancora “in un vento che sussurra un aggettivo…il quale/mi dà una nausea “nazionalpopolare”. La morte è una latenza da se stessi che si sfrangia “in questo supplizio di sentimenti carnefici” tra l’abbandono e l’esiziale commiato. Al centro del libro, nel cuore delle pagine, spicca il suo drammatico volo “Una trilogia” dedicata al padre, in cui l’autore sembra offrirsi in sacrificio alla fragilità degli affetti più profondi. Perfino la carne appartiene alla morte, al sonno, all’inverosimiglianza ontologica dell’uomo ma affiora continuamente nella fame cruenta di un bacio o negli occhi che attraversano la nudità dell’amato e ne svelano l’intimo segreto. C’è un continuo, martoriante parallelismo tra la città e l’interiorità che suggerisce un’osmosi necessaria tra l’umano e il disumano, capace di superare la metafora per compiersi, semplicemente, in natura: “mai mi ero accorto in effetti/di quale vecchia officina/abbandonata e poi dimenticata/sia ciò che giace dentro di me”. Esiste una “postfazione in versi” in cui si riconosce la potenza demiurgica dell’amore come consolazione, anche quando va all’attacco dell’amato, ed è quell’amore edificante che mette alla prova perfino la morte, convincendo alla vita.

“Poema crudele”

Edoardo Monti,

Sovera Editore, 2004, 76 pg.

 

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