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Perché piango di notte
Leggere:tutti presenta ‘Perché piango di notte’, il racconto di Gianluigi Bodi vincitore dell’ultima edizione del concorso letterario Cartacarbone Festival 2015.
Perché piango di notte
Lavoro di notte perché di giorno non piango. Dormo con le serrande alzate, d’estate con le finestre aperte. Non è vero dormire. Entra la luce del sole, entrano i suoni e i rumori di una città che cammina mentre io me ne sto disteso sul letto. Non è vero riposare. Ho gli occhi stanchi, rigati di rosso, le occhiaie scure e profonde. La gente mi chiede se sto male, se ho problemi di salute che non si possono raccontare e, se si possono raccontare, che glieli racconti a loro. Perché ascoltarli li fa sentire meglio, li fa sentire salvi. E se non possono fare nulla per risolverli, amen. È stato bello far parte del gioco.
Mio padre dice che non potrei fare un lavoro diverso da quello che faccio. Dice che la notte non dormivo nemmeno da piccolo, che frignavo in continuazione, piangevo disperato tra le sue braccia. Dice che non ha mai capito cosa non andasse, cosa mi tormentava. Me lo chiedeva, ma io continuavo a piangere e singhiozzare con goccioloni di muco che mi arrivavano al mento. Poi la stanchezza aveva la meglio e io crollavo. Lui non capiva e io non gliel’ho mai spiegato.
Faccio il portiere di notte in un aparthotel. La maggior parte dei clienti sono persone anziane che non hanno più una famiglia che le accudisca e non hanno più la forza necessaria a mandare avanti la loro casa. Sono scarichi, esauriti come batterie da gettare tra i rifiuti speciali. In un aparthotel il portiere di notte non deve fare nulla. Chiudere le porte ad un’ora data, osservare i vecchi che scendono a sgranchirsi le gambe e che dopo una certa ora sembrano tutti uguali dentro le loro vestaglie da camera. Assicurarsi che nessuno dia fuoco al palazzo. Rimanere in silenzio e, di tanto in tanto, sbirciare i monitor di sicurezza. In dieci anni di lavoro non è mai successo nulla. Se non ci fossi sarebbe lo stesso. È così che volevo che fosse. Volevo che la notte fosse l’assenza di cose.
Mio padre viene a trovarmi spesso. Non ha molto da fare. La pensione l’ha sorpreso così: privo di interessi. Passa le sue giornate al bar con gli amici, sempre meno amici. Di notte a volte non dorme, dice che pensa alla mamma e allora mi vuole vedere. Viene e mi dice che lo sapeva che avrei fatto un lavoro come questo, perché di notte non dormivo. E lui non capiva il perché.
Prendo le consegne dal tizio del turno serale. Un egiziano di cui non so il nome e che comunque durerà un paio di mesi prima di trovarsi un lavoro con una paga migliore. Più vivo.
La signora Ginevra mi racconta che è passato il figlio con la nipotina a salutarla. Sono rimasti pochi minuti, una tassa che il figlio paga per essere stato generato. Ginevra fa finta di non saperlo o magari la demenza senile le ha già fatto compiere due passi nell’oblio. E’ bello vederla rifiorire quanto vede la nipotina ed è terribile vederla affondare nella malinconia e nel senso di mancanza quando la visita successiva tarda ad arrivare. Piange, tira fuori un fazzoletto e cerca di ricomporsi. Non sono nemmeno sicuro se sappia il perché piange. Vorrebbe una parola gentile.
Trovo tutto molto rassicurante. I loro capelli bianchi, il ciabattare mentre scendono lentamente le scale, anche il loro vociare sommesso alle prime luci dell’alba, quando si siedono nel salottino in entrata. Si sono arrogati il compito di farmi compagnia. Pensano che io mi senta solo, loro non sanno perché lavoro di notte, non sanno perché di giorno non piango.
Finisco alle 8 e vado in un bar. Mai sempre lo stesso. Ordino un panino e una coca, un tramezzino a volte e mentre consumo qualcosa di imparentato al pranzo e alla cena guardo la gente che si sveglia. La gente che riesce a vivere di giorno, che fa programmi e a volte li rispetta. La gente che di notte dorme.
Mio padre è preoccupato. Dice che a quarant’anni suonati dovrei trovarmi una donna. Una che mi tenga in ordine la casa e mi faccia compagnia. La donna ha una funzione, per lui. Ma io non voglio compagnia. Ha paura che sia un culattone, gliel’ho sentito dire a mia madre. Lei gli ha fatto promettere che non avrebbe interferito con le mie scelte e poi è morta. Non subito. Non è stata una scena di un film. Lei sul letto di morte, la frase finale ad effetto e gli occhi che si spengono. Ci sono voluti anni di chemioterapie per arrivare alla fine. Un percorso accidentato che porta ad un precipizio.
Mamma secondo me l’aveva capito perché piangevo di notte.
Non leggo mai mentre lavoro. Leggere implica dover pensare a quello che si sta leggendo, processarlo, aggiungerci qualcosa di proprio. Non c’è nulla che io abbia da dare. Apro un armadietto e ne tiro fuori una piccola Tv che posiziono sopra il bancone della reception. Ho le cuffie, ma non mi servono. Tengo il volume al minimo perché non è importante ciò che la gente si dice aldilà dello schermo. L’importante è che la loro esistenza non interferisca con la mia. Salto da un canale all’altro, ad un ritmo irregolare. Finisco in un canale locale. Una donna mezza nuda si rotola su un letto sfatto, cavalca un cuscino, in estasi. Tiene in mano un microfono che tratta come se fosse fatto di carne. Sembra tutto chimico. Ho chiamato una di queste donne una sera, un nome d’arte dell’est. Voleva che ansimassi il suo nome. Non ci sono riuscito, non la capivo. L’ho chiamata perché pensavo di dirlo a mio padre, per farlo stare tranquillo: visto papà, non sono culattone.
Ne muoiono duo o tre l’anno. Di anziani intendo. Vengono subito sostituiti da altri anziani arrivati ad essere un peso. Faccio fatica ad accorgermi di un nuovo arrivo. Li noto perché mi chiedono come mi chiamo, ma nemmeno questa è una garanzia.
Pietro è il decano. Nemmeno lui sa di preciso quanti anni ha passato in questo posto. È alto, ha delle gambe lunghissime. Quando si siede sulla poltroncina rossa vicino all’ingresso rimane infossato. Come se da lì non si dovesse alzare più. D’estate gira in pantaloncini e in camicia a maniche corte. Quando si siede, l’orchite fa spuntare due palle raggrinzite come prugne lasciate seccare al sole.
Ha sempre l’aria stanca e lo sguardo severo. Ha una barba ispida, bianca con qualche traccia del nero che doveva essere il colore dei suoi capelli. Gli dà un’aria trasandata, ma lui non sembra farci caso. Non frequenta molto gli altri anziani.
Penso mi assomigli.
Una notte scende. Si siete sulla poltroncina, la sua. Pare fissare fuori nel buio, come se aspettasse qualcuno. Vedo la testa cedergli lentamente e so che si è addormentato. Prendo una coperta dall’armadietto alle mie spalle e lo copro. Lui ha un tremito, si sveglia. Rimango lì in silenzio a guardarlo. Ho l’impressione che si aspetti che gli dica qualcosa, ma non lo faccio. Lui tossisce, si tira su, si avvicina al bancone di vetro e vi appoggia una mano. Dice una frase che ho già sentito. Un uomo non dovrebbe mai sopravvivere ai propri figli. Poi ne dice un’altra che non avevo mai sentito. Al dolore ci si affeziona, è l’unica cosa che non ti abbandona mai e che se anche per un po’ sparisce sai che ritorna.
Si volta e se ne va. L’alone umido della sua mano si dissolve lentamente.
A Pietro vorrei dire tante cose. Vorrei dirgli che se invecchiando dovessi arrivare ad assomigliargli forse la mia vita non sarebbe stata sprecata. Vorrei dirgli che sapere di perdere qualcosa a volte ti fa desiderare di non averla mai posseduta. Vorrei dirgli che la sicurezza di un abbraccio è impossibile da dimenticare e fa male. Che le persone si lamentano sempre di quello che vorrebbero e non sanno come ottenere, ma sentono anche la nostalgia per qualcosa che avevano e non sanno di aver perso.
Nulla di tutto quello che avrei voluto digli esce dalla mia bocca perché Pietro muore pochi giorni dopo. Nel sonno, silenzioso nella morte come nella vita.
Non so se volesse rimanere solo, se fosse quello il suo piano. Non c’era nessuno a piangerlo. Tranne quella fauna tipica che sembra vivere in chiesa, sempre presente, sia che si debba festeggiare, sia che si debba versare qualche lacrima. Nessun anziano dell’aparthotel si è fatto vedere. Non amano dover pensare che tra poco toccherà a loro. La sua roba sta in due scatoloni nello sgabuzzino, in attesa che passino quelli della Caritas a portarseli via.
Sono disteso sul letto. Gli occhi fissi al soffitto. La pala del ventilatore ronza monotona. Pietro è in una cassa adesso, privo di bisogni, senza più nulla da perdere, senza nulla che lo renda ricattabile dal destino. Che sia questa la vera essenza della pace?
È passata la proprietaria. Lei non sa chi sono. Non conosce nessuna delle persone che lavora qui. E’ inutile. Viene a controllare i conti. Lo fa alle ore più diverse. A volte capita di notte, quando ci sono io. Arriva verso le due. L’ora in cui di solito la gente muore.
Ha sempre l’aria stanca eppure cerca di mantenere una postura impettita, uno sguardo distante. Sono elementi che servono a dimostrare che lei è migliore di me. Che lei ha fatto cose, che lei possiede. Vorrei dirle che non serve tutta questa messinscena. Che anche solo per il fatto che per lei la notte sia solo un imprevisto e non la routine, anche solo per questo fatto lei ha vinto e io perso.
Ma non ci parliamo. Solo scambi minimi.
Mi osserva, mi chiede se lavoro lì da tanto, non ricorda il mio viso. Dieci anni non sono bastati a lasciare un’impronta nel suo cervello.
Le porgo un caffè, non me lo ha chiesto, ma lo accetta. Sbadiglia. Si strofina gli occhi. Si direbbe che la stanchezza la renda più simile agli esseri umani.
Ha bisogno di dormire, non ce la fa a guidare e non vuole prendere un taxi, dice. La stanza di Pietro è ancora libera, prende la chiave.
Mi augura buona notte, a meno che non le voglia fare compagnia.
Saliamo in camera, ci sdraiamo sul letto a luci spente. La sagoma di Pietro mi accoglie. Sarebbe poetico se stessimo cercando di creare una vita. Invece sto solo riempiendo una solitudine, la sua.
Un attimo prima di venire penso che giù alla reception non c’è nessuno e che nessuno se ne accorgerà.
Poi penso a mio padre, sarebbe contento.
Arrivo alla solita ora, c’è un un tipo nuovo in divisa. Si presenta e io sono troppo impegnato a studiare i suoi lineamenti per memorizzare il suo nome. Non ha importanza. Tra qualche mese se ne andrà anche lui, dove vanno tutti quelli come lui. Ora è gentile, fa domande, esprime pareri sulla struttura, sul lavoro che fa. Lasciato parlare racconta la sua vita, i suoi desideri, se ha famiglia, se ha un sogno. Tra qualche giorno le conversazioni si ridurranno all’osso fino a che mi accoglierà con un semplice: oggi non è morto nessuno.
E’ colpa mia. Non ho il minimo interesse per la sua vita, per la vita di quelli come lui, che arrivano e sfrecciano via. Nelle fotografie sarebbero le scie luminose delle automobili. Non ho nulla da raccontare. Quando lui esce con gli amici io sono qui a guardare la TV in silenzio. Ad aspettare mattina seduto su una sedia. Quando lui si sveglia io provo a dormire. La luce che entra arrogante e la vita che esplode ovunque attorno a me.
Mi hanno chiamato Dracula, Nosferatu, Signore delle tenebre. Sbagliavano, loro avevano la necessità di innalzarsi sugli altri, io no.
Passa mio padre. Visibilmente preoccupato. Non serve che gli chieda cosa lo turba, me lo dice lui. Ha sentito delle voci, voci che mi riguardano. Qualcuno al bar dice che ha sentito un conoscente parlare di vendita. L’aparthotel pare sul punto di passare ad una cordata di imprenditori cinesi. C’è sempre una cordata di imprenditori cinesi, o russi, o arabi, dico io. Non riesco ad immaginare il motivo che potrebbe spingere uno straniero a comprarsi questa anticamera della tomba. Spesso però le cose accadono e basta.
E’ preoccupato che mi lascino a casa, a piedi, sul lastrico. Perché con i cinesi non si scherza. Lo tranquillizzo, anche se fosse, in qualche modo, me la caverò.
Le visite della proprietaria si intensificano, e io per un po’ credo che voglia riprendere quanto lasciato in sospeso in camera di Pietro. Arriva di notte, prende in mano i registri, ma non si ferma più a dormire. Non accetta più nemmeno il caffè. Lo associa a quello che c’è stato, a quello che secondo lei potrei volere ancora, mentre in realtà è soltanto un caffè. E’ preoccupata. Sembra che tutti quelli che mi stanno attorno siano preoccupati. Pure gli anziani, quei pochi rimasti, sembrano essere più confusi del solito, come se qualche peso gli gravasse sul cuore. Camminano quasi a percorre dei passi invisibili che qualcuno ha lasciato prima di loro, non sanno dove stanno andando, ma ci vanno.
Poi qualcuno tira una corda e il sipario si apre. Settimane di paure, tensioni e congetture trovano la ragione che le ha generate. Qualcuno mi lascia un biglietto nel mio armadietto. Una scrittura femminile. Dice che ha dovuto vendere, che i conti non tornavano più, che era diventata un’attività in perdita che non si poteva più sostenere. Tante parole per definire un semplice fallimento. Mi augura di trovare un nuovo posto di lavoro al più presto. Osservo il cartoncino su cui è scritto il messaggio. Carta porosa, giallognola, quello che a prima vista sembrava scritto da una mano è in realtà un messaggio stampato. Hanno scelto un carattere leggibile ed elegante, che mostrasse partecipazione nei confronti del licenziato.
Ho qualche giorno per trovarmi un altro posto di lavoro, un altro rifugio. I parenti degli anziani hanno tempo a sufficienza per evitare che il cambio di proprietà diventi un problema. Gli acquirenti hanno idee diverse sul tipo di clientela che deve frequentare l’aparthotel. Alla fine non erano cinesi, nemmeno stranieri.
La preoccupazione di mio padre aumenta sempre di più all’avvicinarsi della mia ultima notte di lavoro. Propone soluzioni, parla di lavoro utilizzando termini di paragone che rappresentano un periodo che non esiste più. Il suo periodo. Scambia la mia calma per rassegnazione.
La mattina dell’ultimo giorno mi viene a prendere. Non sono abituato a vederlo di giorno. E’ in macchina, tamburella il volante con le dita. Quando mi vede mi fa un cenno e io mi avvicino. Mi fa salire, mi vuole dare un passaggio fino a casa. Si vuole sincerare che il licenziamento non sia un colpo troppo pesante da assorbire. Mi fa tenerezza, mio padre, costretto a preoccuparsi di un figlio alla sua età. Vuole parlare, anzi, vuole che sia io a parlare. Che gli dica tutto quello che mi passa per la testa. Forse spera che iniziando a raccontarmi il tempo possa scorrere al contrario, portandoci a quelle notti in cui piangevo.
E allora mi verrebbe voglia di dirlo a mio padre che tra le sue braccia mi sentivo sicuro, ma dico altro. Dico cose che riempiono solo il silenzio.
Gli racconto i miei progetti per il futuro, ho già preso contatti con un altra struttura, un albergo appena fuori città, farò sempre il portiere di notte. Costruisco una realtà parallela per rassicurarlo. Un lavoro che mi si addice, aggiunge lui, visto che non dormivi di notte. Ma chissà poi perché non dormivi la notte, chissà che c’avevi da piangere.
Papà, vorrei dirgli, piangevo perché mi facevi sentire sicuro, perché tra le tue braccia non temevo nulla, nemmeno il buio.
Non so, dico io, son passati troppi anni, che c’avevo mai da piangere. Arriva sotto casa mia. Scendo. Lo guardo negli occhi che sono anche i miei, e penso alla nostalgia, a quella palla calda, dolce e allo stesso tempo difficile da mandar giù, quella nostalgia che sai che ti spaccherà il petto. E io piangevo perché avevo paura di quella nostalgia, sapevo che non sarei riuscito a sopportarla.
Dico, hai visto papà, noi notturni cadiamo sempre in piedi. E lui sorride, sollevato, mi immagino che pensi a mia madre, sua moglie, che forse, se fosse viva, sarebbe ugualmente in pensiero per me. Si farebbe un sacco di domande senza sapere dove trovare le risposte.
Parte e lo vedo allontanarsi e mentre si allontana lo saluto anche se so che non mi può vedere, gli parlo, anche se so che non mi può sentire.
Papà, io vorrei dirtelo perché piangevo, perché ti tenevo sveglio di notte senza un apparente motivo, ma come potrei chiamarti, svegliarti magari nel cuore della notte e dirti qualcosa che non ha più senso? Come potrei dirti che avevo paura della nostalgia dei tuoi abbracci, della sicurezza che non avrei avuto più?
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