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Lo Zibaldone

Il pensiero cinese

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di Francesco Roat

Marcel Granet, con le sue opere, ha rinnovato in maniera radicale gli studi sulla mitologia e la società cinese arcaica, descrivendo le concezioni tradizionali, i simboli e i rituali che in Cina regolavano la vita spirituale dei suoi abitanti. Suo testo fondamentale è: Il pensiero cinese. A proposito di tale pensée va precisato che, mentre noi occidentali siamo usi a considerare il nostro linguaggio al fine precipuo di esprimere idee, le antiche popolazioni di Zhōngguó e i loro pensatori facevano invece riferimento a ‟un sistema tradizionale di simboli più efficaci ad orientare l’azione che adatti a formulare concetti, teorie o dogmi”.  Se la lingua cinese offriva poche possibilità alla formulazione astratta di idee, possedeva però un’efficacia notevole nel comunicare un sentimento o per invitare a una decisione. La parola cinese ‒ ci ricorda Granet ‒ è altro e più che un segno che serva a indicare un qualche congettura, non corrispondendo mai a una nozione rigida/definita una volta per tutte. Essa evoca piuttosto ‟un complesso di immagini” di cui, volta per volta, vien fatta emergere la maggiormente efficace.

In Cina il linguaggio è lingua di società: è strumento all’insegna della prassi. Mai alcun saggio tradizionale ha avvertito il bisogno di idee astratte relative a tempo, spazio o causalità. Mentre i nostri filosofi occidentali ‒ sin dal tempo degli antichi greci ‒ hanno pensato il mondo a partire dal principio/nesso causale, tramite una visione del mondo talmente pervasiva e convincente da durare incontrastata per secoli fino a Hume e a Nietzsche.

Il Tao viene pur inteso da oltre due millenni quale principio guida ed emblema attivo ‒ come la classica coppia speculare Yin-Yang ‒, ma rappresenta per la spiritualità cinese una concezione interpretativa del tutto altra rispetto alla nostra idea di causalità. Alla stessa maniera il tempo e lo spazio non sono visti come concetti teorico-formali o categorie, ma vengono sempre immaginati concretamente, indicando l’uno epoche o stagioni, l’altro regioni geografiche o ambienti; poiché essi servono a orientarci.

Parimenti lo Yin e lo Yang non vengono assunti come principi cosmogonici, sostanze, forze o, peggio ancora, entità astratte. Queste due parole evocano piuttosto tutti i contrasti o le alternanze possibili (vedi il maschile rispetto al femminile) e indicano, fra l’altro, ‟aspetti antitetici e concreti del tempo e dello Spazio”. Yin, ad esempio, si dice in riferimento ai versanti ombrosi del bacìo e yang a quelli del solatìo.

Ancora: il Tao viene visto dai cinesi quale efficace forza regolatrice, ma il significato primo del termine è ‟cammino” o ‟via”. Via da seguire e a cui conformarsi: miglior condotta da tenere, che è poi tradizionalmente quella del saggio o del sovrano illuminato. Per questo motivo il Tao non è da concepirsi ‒ in barba alla filosofia occidentale – come una sorta di ente supremo, sostanza prima o divina. ‟Esso svolge il ruolo di un Potere regolatore. Non crea gli esseri”, puntualizza Granet, semmai ‟li fa essere come sono”. Nulla quindi si crea e nulla viene davvero distrutto, bensì ogni cosa si metamorfizza, muta configurazione, varia, come certo concorderebbero Lavoisier e i suoi seguaci.

La convinzione che il tutto (e la molteplicità che lo compone) abbia ‟natura ciclica”, interdipendente e sia caratterizzato da un continuo mutamento ha un così forte peso che, in luogo di registrare la successione degli eventi, i taoisti preferiscono considerare l’alternanza degli aspetti. Nella varietà delle apparenze il pensiero tradizionale cinese coglie tuttavia un ordine efficace il quale governa l’universo; ordine che: ‟è fatto di contrasti, ma esclude la possibilità di contrari”. Alla base di tale concezione del tutto sta l’idea per cui esso si presenta in raggruppamenti gerarchizzati, quasi che il mondo fosse regolato da una specie di protocollo individuabile tramite gli indizi dei mutamenti ai quali è soggetta qualunque apparenza fenomenica.

Dopo il taoismo Granet, nel saggio, si occupa ovviamente del confucianesimo. Dottrina assai poco dottrinale secondo il pensatore francese, convinto che Confucio fosse in primis uomo e maestro pragmatico, propugnatore di una morale corrispondente ad azioni equilibrate, responsabili, rispettose del prossimo, mai egocentrate. Valga, per tutte, una delle principali massime confuciane, analoga al celebre comandamento di Gesù, ma formulata 500 anni a.C.: ‟Ciò che voi non desiderate (che vi si faccia), non fatelo ad altri”.

Interessante, altresì, è forse rimarcare la differenza fondamentale tra taoisti e confuciani. Per i primi infatti, a differenza dei secondi, non importano davvero né il mutuo controllo collettivo, né l’amicizia sodale o qualsivoglia buona opera. Basilari erano semmai la quiete, il silenzio, la meditazione che purifica la mente. È dunque l’aspetto mistico del taoismo ciò che più preme rimarcare qui da parte di Granet.

 Marcel Granet,

Il pensiero cinese,

Adelphi,  2018,

pp. 488, euro 18,00.

 

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