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Pape satan aleppe

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di Aldo Onorati

Va in ristampa in questi giorni un singolare commento di Girolamo Torquati al celebre e inesplicato verso di Dante “Pape satan, pape satan aleppe”, apertuta del VII canto dell’Inferno. Questa pubblicazione è stata curata da Ugo Onorati, certamente il maggiore studioso di dialetti comparati dei Castelli Romani e storico, il più originale e fecondo, di questo territorio.

Prima di entrare in medias res, diamo un cenno sull’autore, che non è molto conosciuto (ma ciò non sta mai in rapporto con la bravura; anzi, talvolta il tutto è diametralemnte proporzionale al valore: e qui mi taccio). Egli nacque a Marino di Roma, patria di Ugo Onorati (e ciò spiega forse anche la sua passione di rabdomante delle acque profonde, detto in allegoria o meglio in metafora) nel 1828, quasi due secoli fa. Studioso di letteratura, speziale, consigliere comunale, soprintende scolastico, assessore, vicesindaco, proclamò a suo onore la realizzazione di un’opera importante a quei tempi: la rivendicazione della proprietà pubblica delle acque contro le pretese dei trascorsi prìncipi Colonna feudatari di Marino. Se continuassi, prenderei tutto lo spazio che voglio invece dedicare all’espletamento quanto mai insolito della frase che ha fatto consumare tanto inchiostro ai nostri commentatori e non solo.

Il libro contiene un’ampia e documentata introduzione al VII canto a opera di una giovane dantista, Martina Michelangeli, già nota per aver pubblicato alcuni testi di esegesi e di interpretazioni filologiche. Tale premessa spiega quanto poi segue al verso indiziato, con sapiente conoscenza dell’opera.

Dunque non starò qui ad elencare quante possibilità di interpretazione ho sotto mano – per dovere di studioso – del verso in questione, ove si scomoda sopratuttto l’ambito di iungue straniere desuete, magari deformate a uso metrico e rimario dal Poeta per eccellenza, e si nomina soprattutto l’ebraico. Da qui la difficoltà del significato che rimane ambuguo, tanto che taluni esegeti lasciano alla “fantasia dantesca” la sua significazione e così abbandonano il campo, come accade spesso nella “Commedia” quando l’Alighieri si chiude a riccio nel suo sintagmatico profetismo. Invece, questo amatore (Torquati), smonta gli altarini, dicendo per anticipo quanto amo riportare (e consivido in toto): “La mania, difficilemente sanabile, di voler leggere in Dante più di quello che egli intese di scrivere, menò molti commentatori a tale estremo  da sostituire alle idee del Poeta le proprie idee, e ad allungar goffamente, o a scorciar grettamente la veste delle parole, nelle quali il Poeta incarnò i suoi concetti”. Questo, Girolamo Torquati lo intuì nel 1889. Se fosse vissuto oggi, e avesse letto le risibili interpretazioni sospese tra fiction e false esegesi, fino ad arrivare a “dimostrare” (talune) che Dante e Beatrice salirono nel cielo della Luna con l’astronave (e molti ci hanno creduto), si sarebbe sentito un indovino! Ma torniamo a bomba. Tutti sappiamo che il trattato “De vulgari eloquentia”, incompiuto, è un’opera di ricerca stilistica, di selezione dai dialetti italiani, e ciò dimostra come Dante fosse un filologo attento e anche schizzinoso, ma non disdegnasse, in caso di necesità espressiva e gnomica, di usare parole dei vernacoli dello Stivale, che egli divideva secondo il segnacolo degli Appennini. Per mio gusto, su uno dei miei Poemi sacri (ognuno dei quali mi serve ad usi diversi) ho segnato parole che entrano ancor oggi nei dialetti, come “cionco”, da noi castellani molto amato. Bene: ho detto questo perché Torquati ha trovato il ”busillis” di aleppe, fra l’altro appartenente – egli afferma – all’italianissimo verbo “aleppare” o “leppare”, e che i contadini di Orvieto usavano ancora al suo tempo, il quale significa “accorrere in soccorso”. Allora, il verso è un’invocazione: “Sorgi Satan, Sorgi Satan, aiutami” (ma – a dirla tutta – Torquati non elimina neppure l’interpretazione di “papa Satan, papa Satan, ajutami”, cioè Lucifero capo dell’inferno, senza escludere che il “pape” appartenga a un’interiezione. D’altronde Pluto è frastornato dalla presenza di un vivo nel suo regno infernale, e chiede aiuto. A chi lo chiede se non al principe degli inferi? Ma- afferma Torquati – il Poeta che aveva scelto la parole più belle da ogni dialetto, forse non ha trascurato quella che si usava (o si usa) nel viterbese. Chissà. E’ un mattone in più nella costruzione interpretativa di un poema talmente grande e talmente oscuro che tiene sempre e comunque a distanza qualsivoglia lettore. Per questo, quando insegnavo italiano alle superiori a indirizzo teologico, appena dicevo “Lectura Dantis”, pretendevo che gli studenti si alzassero in piedi, come quando, sentrati noi universitari nella grande aula del sommo latinista Enzo V. Marmorale, al momento del dialogo in latino (la dizione italiana era esclusa) ci si alzava in piedi all’inizio a guisa di saluto della lingua che ha unito il mondo e che è ancora il veicolo universale di santa Madre Chiesa.

GIROLAMO TORQUATI

COMMENTO AL PRIMO VERSO DEL VII DELL’INFERNO

II edizione settembre 2022,pp. 72, E. 10,00 Archeoclub Colli Albani

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