Filosofia
Osserva da vicino
di Francesco Roat
Ciò che differenzia il messaggio del Buddha rispetto a quello delle altre grandi religioni sta nel non postulare alcun dio o, meglio, nel non parlare a nome di alcuna divinità. Siddharta Gautama Sakyamuni – detto pure il risvegliato o l’illuminato (Buddha) – che visse ed operò nel VI secolo a.C. non sostenne mai d’essere il portavoce di un’entità oltremondana, né la presuppose (pur non negando l’esistenza degli dei induisti). Il suo magistero è quindi essenzialmente umano e in un certo senso non-metafisico: antidogmatico e senza teologia come esso è e volto a cercar di liberare ogni essere senziente dal dolore o, potremmo dire, dal disagio proprio di ogni condizione esistenziale sempre presa, secondo il Buddha, tra i due poli del desiderio e della avversione.
Lo scopo precipuo dell’insegnamento buddista è quindi rivolto agli uomini d’ogni Genere/latitudine; in quanto tutti devono presto o tardi fare i conti con l’invecchiamento e la morte, nonché le sofferenze/privazioni di vario tipo: mali da cui l’illuminato ritiene di poterci liberare attraverso il cosiddetto Ottuplice Sentiero, scandito in otto prescrizioni (retta comprensione, retto pensiero, retta parola, retta azione, retto comportamento, retto sforzo, retta consapevolezza, retta concentrazione) e da percorrere all’insegna della compassione (karunā) e del non-attaccamento (upādāna).
Fondamentale secondo quest’ottica, infatti, è capire che nessuno di noi può mai essere autosufficiente ma sempre dipende dagli altri e con loro è interconnesso, insieme al mondo stesso da cui traiamo sostentamento dal primo all’ultimo respiro. Così empatia, condivisione, sollecitudine verso ogni forma di vita sono gli elementi portanti dell’etica buddista. Come alla base della filosofia del Risvegliato sta la consapevolezza dell’impermanenza di ogni stato o ambito: da cui discende il venir meno dell’angoscia nei confronti della morte; giacché è vano sforzarsi di permanere in una certa condizione/forma o desiderare il possesso di beni/piaceri che presto o tardi dovremo lasciare.
Tutto ciò affronta il saggio B. Alan Wallace, Osserva da vicino, però gran parte del testo è rivolta ad analizzare, più che la teoria, la prassi dei comportamenti suggeriti dal Buddha, la quale prevede l’esercizio costante della meditazione; in primo luogo basata sull’attenzione rispetto al respiro, per giungere alla quiete meditativa e in seguito per coltivare la visione profonda attraverso la presenza mentale rispetto al corpo, alle emozioni, ai pensieri e infine a tutti i fenomeni.
Prassi che ci permette di interiorizzare come sia poroso il limite fra esterno e interno, singolo corpo e ambiente naturale, io e altro da me. È opportuno sottolineare peraltro come la vita quotidiana del praticante buddista si dovrebbe svolgere all’interno di una comunità (sangha) – ambito in cui ci si addestra a sperimentare la non-separatezza – formata da soggetti che hanno smesso di sentirsi monadi isolate per cogliersi quali vere e proprie membra d’un contesto interpersonale che viene ad abbracciare l’intero mondo-universo; ma non occorre certo essere monaci o membri di una confraternita di carattere religioso-spirituale per meditare bene.
Ognuno di noi ‒ comunque e ovunque viva ‒ può dunque aprirsi ad una tale visione relazionale di reciprocità e mutua appartenenza, per cui ciascuno è condizionato da tutto ma insieme responsabile di tutto; quindi l’azione morale per antonomasia è quella che non mira a conseguire nulla, nemmeno l’illuminazione. Semmai il risultato delle pratiche meditative, congiunto alla comprensione della non autonomia/sostanzialità di ogni cosa ed alla costante condotta compassionevole/caritatevole fa sì che l’agire sia puro, perché non intenzionale e nemmeno teso più all’affrancamento dalla contingenza (nirvāna), cessando in tal modo dal porsi a priori come ostacolo alla realizzazione dello stato di risveglio.
I metodi per praticare una meditazione proficua, tuttavia ‒ dice bene Wallace ‒, non appartengono esclusivamente alle scuole buddhiste, quali il Theravāda , il Vajrayāna tibetano, il Chán cinese e lo Zen giapponese; essi sono presenti anche presso l’induismo, il taoismo, il sufismo e il cristianesimo. Comunque le quattro applicazioni della presenza mentale qui dettagliatamente/puntualmente proposte ‒ afferma un perentorio l’autore ‒: “Sono tecniche semplici ma efficaci che permetteranno a chiunque di raggiungere una felicità autentica e la libertà dalla sofferenza, indipendentemente dalle tradizioni, dalle convinzioni o dalla mancanza di esse”.
Auguriamoci sia possibile quantomeno avvicinarsi a un simile traguardo.
Alan Wallace,
Osserva da vicino. Le quattro applicazioni della presenza mentale,
Astrolabio – Ubaldini Editore, 2021,
pp. 347, euro 29,00
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