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Lo Zibaldone

Nonostante tutto. Il dolore innocente

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di Francesco Roat

Dice bene la psicoterapeuta Lella Ravasi Bellocchio (nel suo ultimo saggio Nonostante tutto. Il dolore innocente, edito da Moretti&Vitali): in analisi non si cerca tanto di liberare il paziente dal suo mal-essere quanto piuttosto di perimetrarne l’ambito, di individuarne i confini ‒ che sono poi pure quelli non più riconosciuti dal soggetto rispetto a se stesso e al mondo ‒, cioè: “aiutandolo a ritrovarli, a uscire dall’onnipotenza, ridefinendo gli spazi tra il «suo male» ed il «male»”. Come a dire che il primo passo da compiere per molti (tutti?) è liberarsi dalla perfezione, dall’utopia di un mai pienamente ottenibile ben-essere globale. E l’autrice cita ‒ peraltro varie volte, nel testo ‒ Qohélet/Ecclesiaste, dove viene sottolineato come, paradossalmente ma non troppo, più aumenta la sapienza più aumenta il dolore. Lo sostenevano pure gli antichi greci, ribadendo il binomio mathospathos (conoscenza-sofferenza).

Se è comunque vero che il dolore è sempre innocente, ancor più doloroso esso si fa quando a patirlo è il bambino, l’inerme, l’impotente. Ma non siamo un po’ tutti impotenti davanti ad una malattia incurabile, a un lutto, alla sventura che talvolta si abbatte su di noi con distruttività inaudita? Che fare allora, da parte di un terapeuta dell’anima, di fronte a tali situazioni/devastazioni? La risposta di Ravasi Bellocchio è precisa: non si tratta di cercare un’attenuazione/rimozione del dolore; è opportuno riuscire a rimanere accanto a chi soffre nel modo migliore possibile: “si sta, si trovano le parole empatiche, i gesti empatici, il sorriso, la grazia quando niente più è grazia”. Non si creda ciò sia poca cosa da parte del terapeuta; egli stesso gravato da una singolare “fatica psichica”: quella di essere vicino a chi soffre ‒ anche in maniera atroce ‒ e al contempo di porsi in modo relativamente distante: “per essere con l’altro con il filtro della professione che impone quel minimo di distanza emotiva senza la quale non si riesce neppure a pensare di esserci”.

Ovvero mediante una presenza non certo limitata al mero livello discorsivo; ma attraverso una prossimità psico-fisica fatta anche appena d’uno sguardo accogliente o del tocco carezzevole/caritatevole d’una mano. Lo scrive senza mezzi termini Ravasi Bellocchio: la prima terapia, la cura basilare: “è un amore che sa esserci, trovare i gesti primari di un accudimento materno”. Forse soltanto così coloro i quali intendono prendersi cura sul serio dell’altro riescono a ritrovare/reinventare “l’esperienza del contenimento materno” e la possibilità di rispondere al cosiddetto paziente con fiducia, in modo che egli poi la rinvenga in sé. È questa la com-passione, la autentica pietas che aiuta chi soffre se non altro a ipotizzare di poter continuare a vivere – quantunque egli provi la morte nel cuore ‒ nonostante tutto.

Risulta altresì bella l’umiltà dell’autrice, quando ammette che nei confronti della sofferenza estrema: “Per quanto si studi, ci si formi, si sappia, non si è mai abbastanza preparati”. Non sta infatti nella nosologia, nella teoria o nel pensiero la chiave di lettura/cura di un anima e di un corpo. Che fare, allora? Magari lasciarsi innanzitutto penetrare ‒ grazie alla relazione/contaminazione con il male altrui ‒: “da una scintilla che punge nel profondo. E a cui non si può sfuggire”. Sono queste parole metaforiche ed allusive che non pretendono di illuminare esaustivamente/razionalmente l’enigmaticità del pathos (che può essere, di volta in volta, e a seconda delle circostanze patimento negativo ma anche passione positiva) e del nostro porci nei suoi confronti. Per cui, secondo l’autrice, bisogna anche l’analista sappia: “apprendere a stare nell’esperienza dell’incertezza”, e ciò aiuta “l’operatore a non dissociarsi dalla sua psiche ferita”.

È una prosa direi poeticissima quella di Ravasi Bellocchio e molti sono i poeti da lei utilizzati, più che citati, in questo scritto così intenso, maturo e sofferto. Proprio perché forse solo la parola poetico-poietica può osare di dire l’indicibile dell’umano patire. Basterebbe questa frase, ancora una volta all’insegna della poesia, a dimostrare la felicità di un libro sull’infelicità e sul come porsi nei confronti di essa: “Il sentimento del dolore è legato alla perdita (…). Può esser così potente da devastare, da impedire di riconoscere la realtà del nostro stare al mondo, da spedire nel territorio delle ombre in cui riaffiorano i fantasmi, che ci seguono da sempre, dell’inadeguatezza, dello smarrimento, della paura”. O questo componimento poetico di Emily Dickinson, proposto ai lettori come documento intorno al mistero o alla “sfida del dolore”: “Questa è l’ora di piombo ‒ / ricordata da chi sopravvive, / come gli assiderati ricordano la neve: / prima il gelo ‒ poi lo stupore ‒ / poi l’abbandono ‒”.

Infine, rivolgendosi ai suoi lettor virtuali con le seguenti, a mio avviso, davvero splendide parole, la nostra curatrice ferita ci invita a non considerare mai solo altrui, altra e altrove la sofferenza con cui ci imbattiamo, giacché: “qualcosa del dolore dell’altro ci appartiene, risuona dentro come una musica conosciuta, solo attutita, ma è la stessa musica di fondo: è il nostro essere carico di pena che viene evocato, è l’identica paura di morire che ci attraversa tutti, è la stessa angoscia all’origine del mondo interiore di tutti (…), e allo stesso tempo ‒ infinita e comune ‒ è la speranza di vita, di fare qualcosa di forte della nostra vita, di avere un senso, e infinita e comune è la comune umanità che sta tra l’angoscia e la speranza”.

Lella Ravasi Bellocchio, Nonostante tutto. Il dolore innocente, Moretti&Vitali, pp. 168, € 12,00

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