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Non è ammessa distrazione
Nel mese di maggio incontriamo quell’Italia che a noi piace. L’incontriamo a Torino ed è l’Italia che legge. L’occasione ci viene regalata dal Salone internazionale del libro. È bello vedere il Lingotto strapieno di lettori che scarpinano alla ricerca dell’ultima novità editoriale o di quell’introvabile edizione di un romanzo o di un saggio o della sala gialla, azzurra, rossa, blu, arancio o del caffè letterario dove sta per iniziare il confronto dello scrittore di classifica o di quello emergente con il pubblico. Padiglioni e stand zeppi di pubblicazioni per tutti, naturalmente per coloro che leggono e sanno scegliere in mezzo a tanta creatività. “Ci sono i libri veri, quelli da leggere, e tanti altri, una moltitudine, superflui, effimeri, inutili, da non leggere” (Raffaele La Capria, Esercizi superficiali, Mondadori, 2012).
Sappiamo bene che il nostro è un Paese diviso a metà. C’è un Italia che legge e un’altra per la quale i libri sono di nessun interesse. E purtroppo i lettori forti, quelli che leggono dodici libri l’anno, che sono i beniamini di editori e librai, tendono ad assottigliarsi di numero: nel 2011 sono diminuiti di settecentomila. Ma c’è anche da chiedersi se gli editori, i protagonisti della lunga filiera e le istituzioni preposte al settore abbiano fatto il possibile per mantenere agganciati questi lettori oppure gli abbiano somministrato la solita insipida minestra, riscaldata più volte. Se è così, come temiamo, sono colpevoli di non aver percepito quanto l’intero comparto della cultura sia, in Europa, più importante e più significativo per fatturato di quello automobilistico (Pier Luigi Sacco, Domenica/Il Sole 24 ore, 4 marzo 2012). E in questi tempi di incomprensioni e tradimenti tra Fiat, Paese e Mercato occorre tenerne conto. Incomprensioni nate da quando lo Stato non eroga più gli aiuti a sostegno della Fabbrica, non favorisce l’acquisizione di nuovi marchi storici, non finanzia la costruzione degli stabilimenti e non incentiva la rottamazione. Ma questa non è l’unica frattura italiana.
Non si tratta dell’antico divario tra Nord e Sud, che è il nodo irrisolto della nostra storia politica e sociale. Cristo si è fermato a Eboli (Carlo Levi, Einaudi) e c’è rimasto, nonostante l’impegno di meridionalisti come Giustino Fortunato, Pasquale Villari, Luigi Sturzo, Guido Dorso, Manlio Rossi Doria, Francesco Compagna. E, purtroppo, quella Eboli, simbolo di difficoltà e spartiacque geografico, storico, economico, sociale oggi la troviamo un po’ ovunque, all’interno di ogni segmento della vita della nostra comunità nazionale. E così capita di stare al di qua o al di là di questo o quel versante per ventura o per scelta. In molti ci troviamo tra coloro che rifiutano e condannano la società imbarbarita, cafona, priva di etica, affaristica e che aborrisce ogni forma di legalità.
Lungi da noi la tentazione di trasformarci in megafoni del populismo e di voler alimentare sentimenti di antipolitica, ma non si può e non si deve tacere sui mancati tagli ai costi di questo comparto. Costa troppo ai contribuenti onesti questa classe dirigente impresentabile che in un momento cruciale per il Paese non ha saputo fronteggiare la crisi e ha dovuto cedere il passo ai tecnici. Pesa molto sull’Italia e in particolare su quella parte, sempre più consistente, che non riesce ad arrivare a fine mese. Pesa vergognosamente sul Paese che è a dieta per necessità. Pesa sugli italiani che siedono intorno a una tavola ogni giorno più povera. Pesa su quanti devono rinunciare a un libro o al loro quotidiano. Sì, si taglia infatti, si taglia anche sulle spese alimentari e si taglia sulle spese per la cultura, per l’istruzione, per i libri, per i giornali. Si stanno bersagliando i deboli oltre la soglia di tollerabilità, oltre i limiti di sopravvivenza.
Tutti i nodi di decenni di sprechi, di corruzione, di evasione fiscale, di devastazione del territorio, di insipienza per i beni culturali, di aggressione all’informazione (Rai compresa) sono venuti al pettine. Ma passerà. Non vogliamo un Paese affamato e incolto. Ce l’abbiamo sempre fatta. Ci siamo sempre rialzati dai nostri ruzzoloni e ce la faremo ancora, dopo aver tranciato i rami secchi. Per questo, auspichiamo che quell’Italia che sta dietro le quinte abbandoni il suo silenzio, che potrebbe apparire connivente o ambiguo. I non votanti e gli indecisi, gli indifferenti: scelgano l’impegno affinché l’interesse particolare non prevarichi più su quello comune. Senza però perdonare coloro che hanno commesso crimini contro l’Italia. Perché “perdonare rappresenta spesso per i potenti un incoraggiamento a continuare a fare male” (Maurizio Viroli, L’intransigente, Laterza, 2012).
Ma l’impegno deve essere di tutti affinché la classe politica prenda coscienza delle proprie carenze e si rinnovi, individualmente e nelle strutture partitiche. Oggi, “serve una diffusa e costante intransigenza morale”, occorre dire basta alle compiacenze, “uscire allo scoperto e non farsi frenare dal timore di essere sgradito” (Stefano Rodotà, Elogio del moralista, Laterza, 2011). “Diamo, dunque, concretezza alla nostra condizione di cittadini” (Giuseppe Ayala, Troppe coincidenze, Mondadori, 2012). “Non è ammessa la libertà di guardare dall’altra parte. Insomma, per un intellettuale e per uno scrittore non è ammessa per nessuna ragione la distrazione” (Raffaele La Capria, Esercizi superficiali, Mondadori, 2012).
Giuseppe Marchetti Tricamo
