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Lo Zibaldone

Nietzsche, chi era costui?

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di Francesco Roat

Nel suo ultimo e bel saggio Susanna Mati ‒ che ha appena tradotto felicemente, per Feltrinelli, Così parlò Zarathustra ‒ prova ad illustrare ai lettori che cosa ha detto Nietzsche (per dirla col titolo del noto libro di Mazzino Montinari) attraverso le sue innumerevoli opere non certo di agevole decifrazione. Semplificando assai potremmo evidenziare, con l’autrice, che quello nicciano è: “un filosofare senza dottrina, senza tesi e senza sistema”. Il che fa del pensatore di Röcken un autentico punto di non ritorno della filosofia occidentale. Con Nietzsche infatti non assistiamo solo alla morte di dio ‒ ovvero alla messa al bando di ogni metafisica, principio/verità incontrovertibile, fondamento saldo e/o assolutezza ‒ ma anche a quella dell’ottimismo razionale-teoretico che per secoli ha illuso l’uomo di poter giungere a formulazioni definitive/esaustive nei confronti del mondo. Anzi, utilizzando un’espressione nicciana potremmo dire persino noi che (come scrive il Nostro nel Crepuscolo degli idoli) ormai: col mondo vero abbiamo eliminato anche quello apparente.

Ciò comporta la revoca della differenza tra verità e non verità, tra visione soggettiva e oggettiva; ne consegue, per Nietzsche, che la volontà di sapere dovrebbe trasformarsi in: volontà di non sapere, d’incertezza. Stante quanto sopra ‒ sottolinea l’autrice del saggio ‒ è vano chiedersi ancora cosa significhino davvero idee quali eterno ritorno, volontà di potenza e superuomo, le quali: “non si possono chiarire esclusivamente dentro una struttura logica, perché non sono concetti pensati logicamente, bensì esteticamente”. Come a dire che, con Nietzsche, il “tratto estetico” è ormai irrinunciabile in filosofia; si potrebbe aggiungere come reiteratamente egli insista sul convincimento secondo il quale ogni nostra elaborazione di pensiero dipenda dalla fisiologia, dalla physis.

Mati, insomma, sostiene che l’intento precipuo nicciano sia quello di voler vaccinare i filosofi dal morbo esiziale delle indebite universalizzazioni/generalizzazioni prodotte da un logos illusoriamente saccente. Ma se il logos equivale alla parola della ragione/speculazione, esiste un’altra parola che l’uomo ha utilizzato: quella poetica/poietica del mythos, che nel Nostro tuttavia parla attraverso la voce tragica del pathos. Poiché la Stimmung, la disposizione d’animo nicciana ‒ ad onta di ogni suo (teorico) nei confronti della vita e della necessità ‒ resta pur sempre un pessimismo che il vitalismo dionisiaco del filosofo di Röcken cerca strenuamente (vanamente?) di esorcizzare. Infatti, analizzando con attenzione il cosiddetto amor fati nicciano non dovremmo forse pensare di trovarci di fronte ad un Narr (ad un buffone, come Nietzsche chiama se stesso nei Ditirambi di Dioniso), ad un: “commediante, ovvero colui che crea un’illusione di salvezza, una parvenza di felicità? E che vuole convincere anche noi di questa illusione?”.

In altri termini, il problema basilare è: “Vanno prese sul serio le idee che dichiara, o considerate immagini «mitologiche» oppure esplorazioni ipotetiche?”. Modestamente mi dichiaro d’accordo sul fatto che la risposta non può essere che: certo, esse vanno prese molto sul serio; però non alla lettera, non quali im-posizioni o tesi ma appunto quali suggestive/significative ipotesi. Non a caso ‒ dice bene Mati ‒ Nietzsche si dichiara ultimo discepolo dell’ambiguo dio Dionysos e la più indicativa tra le categorie nicciane resta quella di apparenza (Schein). Ne deriva che il mondo come parvenza è pure: “il mondo come spettacolo estetico”. Così, per il Nostro ‒ e forse anche per la filosofia che procede dopo di lui ‒ la cosa più necessaria è sviluppare la coscienza della parvenza (cfr. La gaia scienza, I, 54) o, meglio ancora, la sapienza della parvenza: una saggezza secondo la quale qualsivoglia nostra umana, troppo umana elaborazione di senso dovrà restare sempre provvisoria, rivedibile, mai assolutizzante.

Ovviamente anche l’io ‒ questo caposaldo fondante e a fondamento del logos ‒ vien messo in discussione da Nietzsche che, anticipando la psicoanalisi, lo vede piuttosto come una pluralità di forze o maschere prive d’un centro stabile o fisso, ma che sono metamorfiche, in perenne cangiamento. Dunque il programma nicciano è quello di liberarsi dall’egoità e dalla velleità ad essa collegata. Prospettiva degna della migliore tradizione mistica tedesca ‒ che va da Meister Eckhart a Angelus Silesius ‒, poiché solo un mistico può dire/auspicare, come dichiara lo Zarathustra nicciano riguardo all’uomo capace di cogliere la pienezza del meriggio: “Egli non vuole niente, non si preoccupa di niente, il suo cuore è fermo, solo il suo occhio vive, ‒ è una morte a occhi apertiˮ.

Morto a se stesso ‒ ovvero abbandonato ogni egocentrismo ‒, in una tale condizione prospettica o in una tale apertura di sguardo, continua il mistico/poeta Zarathustra: “molte cose vede allora l’uomo, che non aveva mai visteˮ (Vieles sieht da der Mensch, was er nie sah). Peccato che questo meriggio, questo momento kairotico abbia a durare poco. Inoltre come suona ancora maggiormente amaro e profetico per Nietzsche, nella medesima pagina del suo capolavoro, l’annuncio di una “sera” (Abend) ‒ ossia la conclusione della propria parabola esistenziale ‒ destinata pure ad essere: “più piena di tempeste e di opereˮ (stürmereicher und tatenvoller), come poi sarà, ma a sfociare quindi, similmente all’amato Hölderlin, nella follia più devastante.

Susanna Mati,

Friedrich Nietzsche. Tentativo di Labirinto

Feltrinelli, 2017

pp. 186, €14,00.

 

 

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