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Nel silenzio del padre
di Francesco Roat
È impresa ardua, se non forse impossibile, recensire in breve spazio l’ultimo saggio di Vincenzo Vitiello, dove l’autore affronta svariate e complesse tematiche che finiscono col debordare dalla principale: una riflessione sul ruolo fondamentale di Paolo di Tarso (l’apostolo delle genti) in merito alla strutturazione che si è successivamente venuta a compiere all’interno del cristianesimo storico, di cui egli fu l’indubbio fondatore, pur essendo il messaggio paolino irriducibile al cristianesimo della secolarizzazione. Infatti già solo le tre brevi interrogazioni che aprono il tasto suddetto son domande da far tremar le vene e i polsi. Riproponiamole dunque all’attenzione del lettore: “È possibile parlare di Dio? E in che modo? Parlare non è forse definire, circoscrivere, de-limitare? Ma è concepibile che l’intelletto finito dell’uomo stabilisca limiti all’infinita essenza di Dio?”.
Certo, una sin troppo facile risposta al primo quesito sarebbe quella di arroccarsi sulla cosiddetta ineffabilità del divino. Oppure optare per la teologia apofatica (o negativa), che ‒ a differenza di quella catafatica (o affermativa) ‒ si limita a dire cosa Dio non è. Ma, concordo senz’altro con Vitiello: le negazioni da noi impiegate non appartengono a Dio bensì a noi umani. Anche parlare di Spirito o di Assoluto risulta fuorviante: essendo essi termini metaforici che ci trasferiscono appunto troppo lontani da Lui. Che rispondere allora? Forse, in primo luogo, che tali domande costituiscono l’occasione per interrogarci su noi stessi e il nostro rapporto con quanto da millenni è ritenuto fonte della religione. Parola, pure questa, su cui nemmeno etimologicamente siamo mai stati d’accordo.
L’ipotesi, detta ciceroniana, vuole la parola religione derivante dal verbo relegere (discernere/cercare con attenzione/scrupolo; per cui, di conseguenza: aver cura). Quella lattanziana ritiene invece essa derivi dal verbo religare (legare, unire assieme); da cui la focalizzazione al vincolo di pietà, tramite il quale, secondo Lattanzio: siamo stretti e legati a Dio. Si tratta al contempo di un legame che unisce fra loro gli umani: uniti dalla stessa credenza/fede. Infine la (forse più debole) tesi agostiniana, che vuole la parola religione sempre derivata dal latino religere, verbo composto dal prefisso intensivo re + eligere (scegliere), a indicazione di una scelta per Dio.
Come sopra accennavo: sia la religio letta quale legame/rapporto significativamente vincolante, sia vista come discernimento e cura attenta, sia intesa all’insegna di un’opzione fideistico-fiduciosa, essa indica sempre qualcosa che dà significato, unisce, orienta ed affratella il nostro sentire/agire. Derrida, ricordando come Heidegger abbia fatto riferimento ad una sorta di a priori del pensiero e del pensare – che il filosofo tedesco chiama Zusage (accordo, fiducia, confidenza o il convenire) –, sottolinea l’importanza di questo richiamo alla fede nella Zusage prima di ogni sapere, di ogni filosofia o teologia.
Sempre restando nel piccolo mondo dei termini (istruttivo quest’ultimo vocabolo ‒ derivato da terminus ‒, che dice già del limite invalicabile, implicito in ogni discorso), da cui, per comunicare linguisticamente non possiamo evadere, ecco un’altra parola basilare in ambito religioso, ovvero la fede. Vocabolo che Vitiello cita citando il Paolo della Lettera ai Romani, dove troviamo scritto che il giusto vivrà per la fede, dalla fede, sul fondamento della fede. E ancora Vitiello sottolinea come: “qui «fede», pístis, nomina insieme la Fedeltà di Dio all’Alleanza e l’affidamento dell’uomo a Dio”. Ma giusto rispetto a che sia la fede sta una delle differenze cruciali tra Paolo e l’ebraismo. Fede: “che per l’ebreo è opera dell’uomo e per Paolo opera di Dio: «l’iniziativa non è dell’uomo (…) ma di Dio che usa misericordia (Rm 9,16)»”.
Ne deduciamo che, in quest’ottica, la salvezza si raggiunge per fede. Però, chi non si salva, essendo senza tale pístis, come può venir detto colpevole della separazione tra lui e Dio, se è Questi a concedere la fede alle creature? Siamo qui di fronte a un problema di non poco conto, che viene chiamato da Vitiello “il gran mistero della teologia paolina, invero di tutta la teologia, e ebraica e cristiana”. O forse il vero peccato ‒ nel senso di errore: hamartía ‒ sta nell’amare se stessi o il mondo per se stesso in luogo di Dio, che pur s’è annunciato a noi tramite Cristo: che è ísa theô: Figlio di Dio. Resta che, secondo l’autore del saggio, l’annuncio del mistero non toglie/scioglie il mistero, ma ce ne fa custodi. E la rivelazione comporta nei credenti: “avvertire di non-essere-per-sé, ma per-altro”.
Un altro drammaticamente assente ‒ come pare lo sia il Padre di fronte al figlio crocifisso per quanto o in quanto giusto. Un’assenza davvero cruciale ‒ quella del sacro ‒, che, nota acutamente Vitiello: “si esprime nelle tribolazioni dell’ekklesía, della comunità dei credenti che soffrono l’oltranza del Sacro rispetto a ogni immagine di Dio, a ogni forma di chiesa”. È comunque un dato di fatto senza dubbio scandaloso: Gesù muore innocente; tuttavia a morire è appena la sárx, la carne, che poi risorgerà nello pneûma: lo spirito. Inoltre va sottolineato come Cristo accetti/accolga, magnanimo, il suo destino di vittima (“non sia fatta la mia, ma la tua volontà” – Lc 22,42).
Eppure il grido-interrogativo del Crocefisso: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”, ci fa interrogare sul senso di tale assenza divina. Per quanto ‒ cerca di rispondere Vitiello ‒ l’abbandono potrebbe essere l’ultimo dono possibile. E altresì: “Il Padre custodisce nel silenzio il Mistero del sacro”. E ancora: “il silenzio è il segno dell’inaccessibilità degli abissi di Dio”. Al contrario, a mio modesto avviso, per i mistici (ma sembra purtroppo che a Vitiello questi eccentrici non piacciano granché) il silenzio è piuttosto l’unico modo affinché detti abissi si spalanchino. Solo così si ribalta l’idea nicciana che ogni nostra presunta verità, certezza, ogni terreno stabile (Grund) a cui ancorarsi si rivelino inquietante abisso (Abgrund). Ebbene il mistico fa invece dell’Abgrund il suo Grund: il luogo-non-luogo ove abitare/restare in quiete, sicurezza e beatitudine.
Vincenzo Vitiello, Nel silenzio del Padre. Cristianesimo e storia da Paolo a Gesù, Salerno Editrice, 2023, pp. 212, euro 21,00
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