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Mia madre è un fiume
di Francesco Roat
Ha un gran bell’incipit il romanzo d’esordio di Donatella Di Pietrantonio ‒ appena riproposto ai lettori da Einaudi ‒: efficace nel secco ritmo paratattico, oltremodo evocativo ed incisivo. “Certi giorni la malattia si mangia anche i sentimenti. È un corpo apatico, emana l’assenza che lo svuota. Ha perso la capacità di provare. Allora non soffre, non vive”. Il soggetto colpito da tale torpore è la madre dell’io narrante femminile. Il male (mai esplicitamente nominato nel testo) che mina il fisico e la psiche dell’anziana signora sembra essere l’Alzheimer. E la narrazione in parte s’incentra sul lento ma inesorabile calvario d’una patologia fra le più devastanti, in parte ripercorre attraverso i ricordi della figlia l’esistenza materna: le tappe salienti di una vita che sta perdendo memoria/cognizione di sé e del mondo, in quanto “l’atrofia che lavora dentro la scatola d’osso” è “una specie di cancro al contrario” che “secca invece di proliferare”.
Ma non è possibile rievocare eventi altrui senza parlare indirettamente/fatalmente di sé. Raccontando/donando quindi le proprie reminescenze alla madre in una sia pur maldestra offerta amorosa, da un lato la narratrice tenta un recupero destinato a risultare frammentato, partigiano e stravolto perché condotto per interposta persona, dall’altro finisce per proiettare le proprie emozioni sui vissuti materni, sovrapponendole ad essi e rischiando di parlare sempre e solo di un rapporto filiale malato o quantomeno segnato dal “disamore”. L’io narrante è ben consapevole di tutto questo, però, o ad onta di ciò, tenta lo stesso l’arduo restauro d’una memoria che si sta spegnendo, giacché: “le posso solo affabulare la sua vita”, confessa sincera ai lettori.
E così, giorno dopo giorno, consegna alla smemorata tessere di ricordi che la donna non sistema più nel puzzle caotico d’una mente incapace di rammentare. Così s’invertono i ruoli: la vecchia torna bambina, mentre la figlia diviene madre e cerca d’accudirla con la pietas lenitiva della parola. Ma se è vero che verba volant, ancora maggiormente per una malata di Alzheimer i discorsi risultano effimeri, labilissimi, vani. Quante volte bisogna ripeterle una frase d’avvertenza o divieto. A lei che: “Non distingue più le stagioni, non riconosce l’autunno nell’orto, nella pelle d’oca delle sue braccia scoperte”. A lei: “fiume in secca”. A lei che, per scelta espressiva dell’autrice, non parla mai (tranne una volta, prima che il romanzo si chiuda) in questo dialogo imploso in monologo; ma solo ascolta: per afasia è obbligata ad ascoltare un’altra. E chiede, per tutto il libro sa solo chiedere un impossibile soccorso.
Sullo sfondo un Abruzzo (qui tutto e solo montanaro) che conosce fin troppo spesso l’emigrazione, tratteggiato con grande abilità descrittiva. Un piccolo mondo misero, ma al contempo – essendo per l’io narrante quello andato dell’infanzia – ricco talvolta di spensieratezza ingenua e fiduciosa. Zolla arcaica di un’Italia ancora in lotta contro l’analfabetismo, in cui si agitano personaggi che emergono a tutto tondo da pagine memorabili, frutto d’una lingua ora rurale ora curiale per l’accuratezza più che per la ricercatezza dei termini.
Narrativamente riusciti pure i vivaci quadri episodici (lo sposalizio anni sessanta – l’uccisione del maiale d’inverno – il ritorno a casa dell’emigrato). Intensi gli squarci meta romanzeschi: spunti riflessivi redatti all’insegna di un’acutissima sensibilità psicologica. Felici, infine, i seppur brevi scampoli di scrittura meditativa: sorta d’icastici aforismi, purgati però da ogni velleità saccente.
Donatella Di Pietrantonio, Mia madre è un fiume, Einaudi 2022, pp. 128, euro 10,00

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