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Lo Zibaldone

Meditazione, cosa significa davvero

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di Francesco Roat

Raffaella Arrobbio ‒ psicoterapeuta nonché studiosa del buddhismo ‒ nel saggio La meditazione tra essere e benessere affronta un tema di non poco conto: cosa implica oggi il crescente interesse per la cosiddetta mindfulness (presenza-attenzione mentale) e in cosa tale tecnica, nata in Occidente, si differenzia dalla pratica meditativa tradizionale buddhista: espressione della spiritualità orientale. Come precisa l’autrice nell’introduzione al testo, il suo libro nasce quale tentativo d’una chiarificazione rispetto a tre precisi ambiti: quello di quanti, avendo iniziato un percorso di meditazione laica, si trovano disorientati e con la sensazione di non sapere più come/dove muoversi; quello di coloro che, pur trovandosi a proprio agio praticando la mindfulness, intendano ampliare il proprio orizzonte conoscitivo confrontandosi con chi ‒ vedi Arrobbio, ma non solo ‒ esprime molti dubbi e preoccupazioni sull’utilizzo indiscriminato di tale tecnica; infine quello di: “chi sta cercando una via che l’aiuti a sollevarsi a una dimensione di coscienza superiore all’ordinaria capace di dare un significato più alto e comprensivo alla normale esistenza quotidiana”.

Il saggio parte inoltre da una presa di posizione chiarificatrice, non limitandosi Arrobbio a ritenere dimensione umana solo quella caratterizzata orizzontalmente/materialisticamente dalla diade corpo-mente, ma considerando in modo privilegiato pure un secondo aspetto, qui detto verticale, ossia l’ambito proprio dello spirito, riferibile ad un’entità superiore/ulteriore che potremmo chiamare pneumatica, per distinguerla dalla mera sfera psico-somatica. Si precisa dunque che: “nell’essere umano esiste fin dall’antichità l’esperienza di una dimensione Oltre l’ordinario, sia pure denominata in molti modo diversi e ricercata per strade differenti, e che quella dimensione trascendente l’ordinario è tuttavia in noi stessi, in nessun altro luogo che in noi stessi”. In ogni epoca e in ogni tradizione sapienziale è presente pertanto l’idea che in noi abiti il divino, un “dio nascosto”, da far venire allo scoperto e da intendere quale nostra realtà primigenia.

È opportuno insistere sulla possibilità di poter fare esperienza di tale profonda realtà, indicata sì tramite formulazioni diverse da tutti quanti gli autentici maestri spirituali, ma rivelantesi ovunque la stessa. Importa relativamente come la si chiami ‒ Dio, Tao, Brahman, Uno-Tutto, non-dualità ‒, ciò che conta è percepirla, viverla. Accostarsi ad essa tramite ragione e scienza non è tuttavia possibile. Occorre un approccio diverso: intuitivo nel senso etimologico del termine, mediante un vedere dentro che non ha bisogno della vista ordinaria; anzi essa è superflua. Non a caso nella meditazione si tengono gli occhi socchiusi e il termine mistica deriva dal verbo greco myein, che significa chiudere gli occhi dinnanzi al divino e tacere, perché ogni discorsività è fuorviante. Perché allora i sermoni del Buddha o di Meister Eckhart? Perché tentare comunque di dire l’indicibile? Innanzitutto lo si fa – dice bene Arrobbio ‒: appena “tramite segni, accenni, parabole, immagini” o per mezzo di simboli e metafore allusive che rappresentano solo il dito che indica la luna piuttosto che una presunzione saccente/arrogante. In secondo luogo poiché ogni maestro spirituale è mistagogo/psicagogo compassionevole e cerca, tramite le sue parole, di indicare un percorso di vera salute/salvezza.

E qui siamo al cuore del saggio, dove si precisa che non basta certo mezz’ora di meditazione al giorno per una piena realizzazione, come si limita a suggerire la mindfulness. Anzi nemmeno una meditazione prolungata risulta bastante da sola, se ad essa non corrisponde una prassi esistenziale all’insegna del distacco, dell’amore oblativo e della rinuncia alla volontà/velleità di potenza e alle ambizioni personali d’ogni genere. Concordo quindi appieno con l’autrice: “se ci mettiamo seduti in posizione del loto, su un cuscino da meditazione, con una mālā come bracciale o come collana, con un bastoncino d’incenso acceso vicino a noi, socchiudiamo gli occhi e seguiamo un’istruzione su come meditare… tutto ciò è una parodia della spiritualità, qualora l’obiettivo della nostra pratica non sia l’autotrascendenza, l’abbandono di ogni egoità”.

Così la meditazione avulsa da un indirizzo esistenziale all’insegna di un ethos che veda come ostacoli principali: l’“attaccamento all’io e mio” e il “desiderio di affermazione e appropriazione” risulta ininfluente rispetto alla possibilità di una trasformazione/realizzazione spirituale, che implica sempre l’apertura del cuore nonché, si accennava sopra, la compassione buddhista o l’equivalente agape cristiana. Tenuto conto di tutto ciò, come appare altra e assai limitata l’ottica della mindfulness, la cui prospettiva si riduce a mera tecnica per ridurre lo stress, raggiungere un maggior benessere e/o migliorare le nostre prestazioni nei settori più vari, anche lavorativi. Nulla di male in questo, è ovvio, tranne il rischio (grave) di scambiare tale moderna forma di pseudo-meditazione in una sorta di panacea in grado di risolvere tutti i problemi: specie quelli psicologici, i cui sintomi ‒ come sottolinea Arrobbio nel capitolo intitolato Effetti indesiderati ‒ potrebbero invece persino aggravarsi, giusto a seguito della pratica mindfulness, che non è certo una valida forma di psicoterapia.

In conclusione lascerei senz’altro la parola al Lama Cheuky Sèngué ‒ che studia e pratica il buddhismo tibetano da diverse decine d’anni ed ha scritto la Presentazione al saggio di Arrobbio ‒ secondo il cui parere: “ridurre la meditazione a una piccola cosa, creando però l’illusione che questa piccola cosa sia molto, rischia di limitarci in un comfort ristretto, facendoci nello stesso tempo sfortunatamente dimenticare l’immensità luminosa alla quale siamo chiamati. C’è qualcosa da guadagnare, ma anche molto da perdere”.

Raffaella Arrobbio, La meditazione tra essere e benessere. Non c’è mindfulness senza buddhismo, Le Lettere 2022, pp. 222, euro 18,50

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