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Marco Balzano, uno scrittore che ascolta gli altri

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di Loredana Simonetti

Professore di lettere a Milano, Marco Balzano è uscito alla ribalta con i suoi romanzi da diversi anni. È un autore al quale mi sto appassionando, perché il suo modo di scrivere è legato alle storie degli altri. Ho iniziato il suo romanzo Resto Qui (Einaudi, 2018), in cui, attraverso una vicenda romanzata, ripercorre la storia del Sud-Tirolo dagli anni che precedono la seconda guerra.

La popolazione del piccolo centro di Curon, terra contesa tra tedeschi e italiani, è vittima della posizione geografica; come se non bastasse, Curon è nucleo della realizzazione di una diga, che ancora oggi copre il paese con l’acqua e solo il campanile della chiesa spunta dal lago, una meta turistica per la stranezza ma simbolo di una forza straordinaria che ancora lo vuole lì. Il romanzo narra di famiglie del luogo, frutto di studi e interviste alla popolazione del posto, dando così la possibilità ai lettori non solo di leggere un bellissimo romanzo ma di conoscere anche fatti veri ormai dimenticati: la capacità di studio di Balzano è veramente accattivante.

A conferma di questo mio stato d’animo è stato anche il romanzo L’ultimo arrivato (Sellerio, 2014). È la storia di uno dei tanti emigrati dal sud che, per fame, veniva affidato a qualche compare di paese, nella speranza che al nord, oltre ad avere da mangiare, imparasse un mestiere che lo portasse a vivere meglio. La svolta importante avveniva a quindici anni d’età, quando questi adolescenti sarebbero potuti entrare a lavorare in fabbrica. Storie nostre, di cui spesso non ricordiamo i particolari, fenomeno dell’emigrazione infantile che ha miscelato le nostre popolazioni e i riferimenti sociali e culturali. Un altro romanzo bellissimo in cui “la sensazione immediata è quella di vivere in un film in cui il protagonista è uno che non va mai avanti. Cambia la città, cambiano gli abitanti, cambia il modo di fare, ma lui no.”.

Marco Balzano è uno scrittore che ascolta gli altri e l’ultimo libro pubblicato in questi giorni, Quando tornerò (Einaudi, 2021), parla della cura. Nella presentazione del suo libro con #LibridaAsporto[1] spiega perché una donna ben radicata nella sua famiglia e nella città di origine lascia la Romania per fare la baby sitter o la badante o comunque lavorare in un’altra famiglia, lontana dalla sua. Balzano è andato in Romania, nella Moldavia, nelle comunità dove gli adolescenti restano soli e le loro madri lavorano nelle nostre case. Sono madri anch’esse e vengono da noi per costruire ai loro figli la stessa vita che hanno i nostri.

La scelta della protagonista del libro, Daniela, ci appare impossibile da giudicare. Non racconta ai suoi figli che cosa le sta accadendo e interrompe la comunicazione con loro che pensano le peggiori cose di lei. Ma i problemi partono anche dai comportamenti familiari. Se non si cambia l’orizzonte della propria vita, i figli rischiano di somigliare troppo ai genitori. Il figlio di Daniela, Manuel, perde un riferimento importante quando la madre se ne va, perché la nostra società patriarcale ricorda Enea, profugo anch’egli, che si carica sulle spalle il padre Anchise e lo porta con sé. La nostra società era così, fortemente così: nelle famiglie numerose di inizio novecento almeno un figlio non si sposava e rimaneva con gli anziani genitori per accudirli sino alla fine. Ma se parliamo di pari opportunità e non solo di chiacchiere, quello che non funziona nella società di oggi, è la riduzione della propria funzione alle sole braccia. Nel libro il marito di Daniela non prende posizioni, come fosse “un cetriolo”, un angolo buio, ma le donne come Daniela sono quelle che sanno tenere insieme il mondo, perché sono capaci di andare incontro a mondi diversi.

La prima voce economica della migrazione in questo senso, è la cura degli affetti degli altri. Le traiettorie della cura prendono direzioni diverse in tutto il mondo e il gesto d’amore più è assoluto più è difficile da accettare. Queste donne portano emancipazione ai figli, perché il vero amore è qualcosa da dare a chi non lo chiede. Ci sono dinamiche di penetrazione nelle vite degli altri, il lavoro di cura investe anche i sentimenti. La parola “badante”, coniata per chi accudisce una persona anziana è brutta, come se “badare” sia rivolto ad un cane o un animale qualsiasi.

La cura richiede complessità incredibili, che si vuole svilire al significato di pulire, dar da mangiare e cambiare la biancheria alle persone; nella cura c’è capacità di ascolto e di partecipazione, però si pretende che queste persone siano perfette come pensiamo di essere noi, parafulmini del nostro senso di inadeguatezza e incapacità. Parole molto forti, utilizzate da Marco Balzano nella sua intervista.

Il libro è un invito a prendere atto dei nostri cambiamenti, ma c’è pudore e vergogna a parlarne, noi stessi usiamo l’espressione “abbiamo preso una badante e l’abbiamo pagata.” Il nostro sistema non è accogliente e lo vediamo dai notiziari tutti i giorni. In tanti aiutano ma il sistema non aiuta nell’individualità; in una società che funziona il lavoro è una scelta esistenziale, non solo per il benessere personale ma per il bene di tutti.

Con tutte queste premesse, anticipate dallo stesso autore, è impossibile non leggere il suo ultimo libro, Quando tornerò.

[1] LibridaAsporto è un network che unisce editori e librerie per i lettori su un’unica piattaforma fatta di relazioni e condivisione di cultura. (www.libridaasporto.it)

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