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“L’uomo a metà” di Antonio De Rose, ovvero, l’incauta fenomenologia dell’inetto
La Rondine Edizioni in collaborazione con il “Circolo degli Incauti”, 2022
Partendo da L’uomo a metà di Antonio De Rose (Euro 9,90, pp.112) è possibile percorrere un cammino a ritroso fino alle manifestazioni mitologiche e, dunque, semantiche del mondo classico della fenomenologia dell’antieroe. È l’inetto Giasone dominato dalla sorte, che Apollonio Rodio mostra, alle soglie del suo viaggio, inadeguato all’impresa che lo attende. Egli, a differenza del pur dubitoso ed empatico pius Aeneas nella cui catabasi agli inferi il padre Anchise ricorda la missione affidatagli “parcere subiectis et debellare superbos”, si mostra cupo, insicuro, incerto al raggiungimento della vana gloria, teme per se stesso e per i suoi compagni. L’argonauta è nobile di stirpe, ma il vello d’oro pare una meta troppo ambita, egli non è Achille né Ettore. Egli non è come l’eroe greco “dovrebbe essere” e si rivela incapace nel suo agire e nel comprenderne le ragioni. Il viaggio si prospetta inutile, gettato in un mondo più grande di lui che lo sovrasta, frustrato per un sentimento di amekanìa che risente di un senso di inadeguatezza e di impotenza, uno spazio ostile e indifferente che si oppone a chi, dunque, diviene un antieroe ante litteram. A questo, si unisce la spinta oppositiva della tùke, dell’inconoscibile sorte, oscura e dominatrice degli uomini e persino degli dèi, ridotti a meri spettatori della loro impossibilità di agire. L’uomo classico viene rivisitato alla luce della cultura ellenistica e dell’impero frammentato lasciato da Alessandro Magno e svela “un uomo a metà” o, meglio, in contraddizione, oppure scisso, in attesa che i secoli futuri rispondano all’enigma etimologico e ridefiniscano i contorni del mito. Giasone è il giovane forte, ma senza attitudini eroiche, le capacità oratorie gli conferiscono fascino non sufficiente, però, a nascondere la fragilità del suo animo esitante. Tale complessità, troppo anticipatrice, riduce il comandante alla passività per cui non vi è posto nei Campi Elisi, e l’eroe greco diventa un moderno inetto che non trova rifugio in luoghi ameni o nei marmorei mos maiorum, così come nel senso ultimo della propria esistenza. Non è lui il timoniere, ma è Tifi, a cui confida il proprio smarrimento, egli giunge al vello d’oro sostenuto dai compagni, oppresso da una responsabilità che non ha mai voluto veramente, rendendolo, così, in-aptus, il non-adatto.
Sarà il genere della tragedia a reinterpretare la figura dell’antieroe: Eschilo, Sofocle ed Euripide propiziano per tali sventurati una sconfitta senza appello.
A questo punto, giunge il richiamo alla Pharsalia di Lucano alla cui presenza di un Cesare banchettante sul campo di guerra, Pompeo, già sconfitto in partenza, è l’antieroe passivo che non può che assistere inerme al crollo definitivo della res publica.
Scriverà Seneca nelle Lettere a Lucilio: «Il continuo agitarsi di una vita tumultuosa non è sana operosità, ma irrequietezza di una mente esaltata; e il considerare molesta ogni attività non è vera quiete, ma sintomo di inettitudine. Tu terrai, dunque, bene in mente questo pensiero di Pomponio: “V’è chi vive così chiuso nel suo guscio, da vedere un oscuro pericolo in tutto ciò che sta alla luce del sole”. Occorre saper conciliare le due condizioni di vita: l’uomo che vive nella quiete sia più operoso, e l’uomo d’azione trovi il tempo per riposare. Tu segui l’esempio che ti dà madre natura: essa ha fatto sia il giorno che la notte».
Con l’avvento del Cristianesimo, il Medioevo giunge a una forma rinnovata dell’eroe: egli è chiamato a umiliarsi, ad affrontare crisi e incertezze, alla lacerazione della scissione, al vivere la passione per poi risorgere. La fedeltà deve perdurare, pur nella sofferenza, fino alla fine dei tempi, finché non giungerà l’eskaton. Dunque, l’antieroe cristiano è colui che imposta un paradigma del sapere basato solo sulla conoscenza empirica, egli non si fida di Dio e, anzi, si pone dinnanzi al mistero non con l’umiltà di chi vuole contemplarne la grandezza, ma come chi osa sfidarla, quasi con odio, pari ai superbi (d’ingegno) destinati ad arenarsi sulle sponde del monte del Purgatorio.
È nell’Umanesimo e nell’autocentrismo del perfetto uomo vitruviano che riecheggia l’intento dell’Ariosto nel rendere Orlando un soggetto mediocre affondato nell’impossibilità di un idealismo eroico. Sarà Astolfo a recuperare il senno del neo giasonico personaggio a cui non resta che vedere, dalla Luna, la realtà umana tristemente e favolosamente rivelata nella sua inconsistenza.
La percezione dell’individuo sempre più distante dalla concezione dell’eroe, si conferma nell’edonismo riluttante dell’Adone di Marino che non-attua nulla, non compie gesta eroiche e muore per mano, se così si può dire, di un cinghiale, riecheggiando la fine dell’impero sveviano di Federico II, che muore a caccia e non nello svolgere eroiche imprese.
Ma è il protagonista del primo romanzo europeo, l’eroe-antieroe Don Chisciotte, o l’eroe dell’immaginazione, se si preferisce, che agisce senza agire. Egli si ostina a ignorare la prosaicità della realtà, alla ricerca del bello immaginifico, sceglie uno spazio lontano da una realtà rifiutante, anche se solo nella sua mente.
Il self-mad-man del razionalissimo secolo illuminato, dona spinta uguale e contraria affinché si giunga allo sventurato e scisso eroe ottocentesco. In contrapposizione, inconsapevolmente, crea il terreno di un contesto sociale in cui, molto presto, l’inetto sarà posto nella possibilità di non agire, di non appartenere se non somatizzando un malessere che già si svela alla luce della lampada dei neo romantici che rivela le parti oscure e celate dell’individuo.
Dal Saul alfieriano afflitto da una nevrosi non ancora scoperta, a cui altro non resta che uccidersi per liberarsi dai suoi demoni, si giunge all’eroe decadente, anti-eroi in fondo, che difendono un mondo che evolve troppo velocemente, mentre etimologicamente già si amplia (anche geograficamente) e trasmuta la semantica del termine “romantic”, che da follia irrazionale e disagio mentale o interiore, diviene indicatore di una condizione sentimentale soggettiva, con l’accezione di chi attua un’intima protesta (“romatique”, “romantisch”, “romantico”).
Nel 1892 Italo Svevo scrive Un inetto, pardon, Una vita. Il titolo originario era il primo, invero, errore non mio. L’influenza era senz’altro quella di Shopenhauer, ma anche di un altro suo prediletto, Turgenev, che nel 1850 dona alle stampe Diario di un uomo superfluo. Gli scrittori russi suggeriscono la via: Puskin, Goncarov, Dostoevskij, e al coro si unisce il ginevrino Henri Frédéric Amiel, nel cui diario, si badi bene, si descrive come un inetto, reso incapace di vivere da un eccesso di autoanalisi.
Nella letteratura italiana si annoverano altre influenze, e il contesto storico-sociologico, in particolare nel decennio segnato dall’egemonia di Crispi, si contrappone alla figura dell’inetto, sancendone, invece, la conferma, attraverso un’ostinata affermazione dell’ideologia dominante che fa leva sugli ideali borghesi di efficienza e produttività, non inettitudine e fragilità, ma attitudine e forza. Si odono ancora, i versi dell’albatros baudeleriano e dei gabbiani di Alessi nei Malavoglia, in contrapposizione all’Alfonso sveviano che “non sapeva più il passo calmo dell’uomo forte”.
Tuttavia, Zeno, si riconoscerà, come risaputo, in un uomo vincente, poiché l’uomo mediocre, ora, è colui che ha assimilato i disvalori della cultura dominante; l’uomo perduto, lo straniero insoddisfatto, il non cosmopolita alfierano, che viaggia, sì, ma alla ricerca di un senso più intimo, più autentico, è adesso “l’uomo più umano che sia stato creato” (ancora Svevo), reso tale proprio dall’essere renitente ad adattarsi e a vendere la propria anima a Mefistofele. È l’Oreste di Pirandello nel cui strappo dello scenario, del cielo invero, finisce il senso dell’esistenza, finiscono i valori, gli eroismi, le virtù. È Giovanni Drogo di Buzzati a cui non spetta alcuna gloria, ma l’anonimato. È il partigiano Johnny alienato e stranito, seppur nel sacrificio. È, infine, “l’uomo ombra” di Montale le cui certezze si dissolvono e che vede se stesso vivere.
Mentre Umberto Saba recita: «Nel mio cuor dubitoso sento bene una voce che mi dice: “Veramente potresti essere felice”. Lo potrei, ma non oso», il nevrotico Gonzalo gaddiano rifiuta e al contempo desidera inserirsi in società, e in questa forza centripeta come un vento improvviso piomba nelle stanze di una madre morente, odiata e amata, di cui medita la di lei scomparsa, nel logorio del vivere il dolore, conditio sine qua non alla comprensione. La psicoanalisi farà il resto, di già a lavoro allo scoccare della mezzanotte dell’anno 1900, quando Freud appositamente attese per dare al mondo L’interpretazione dei sogni.
Aldo Mauri di Antonio De Rose era già nato negli ottanta del XXI secolo, non lui ma l’opera, con questa eredità, con questo corredo genetico, e non solo. Appena viene alla luce, egli scorge, se possibile, un mondo più complesso, immemore del lupo che si aggira nella steppa alla ricerca del Demian. È agitato similarmente a Zeno Cosini a casa Malfenti e senza la spinta all’autocelebrazione che celava la psicosomatica attitudine al vizio del fumo e allo zoppicare. Il professore di scuola superiore dorme con il Tavor sul comodino, la tendenza è l’oblio, lo stordimento dei sensi per uccidere una parte mancante, quell’ombra proiezione del Sé che non ha mai avuto, che permette ai dannati in espiazione di riconoscere Dante “vivo” tra i peccati, rendendolo inabile alla richiesta di immediatezza della vita, che non lo ama e come Medea lo attende. Sulle orme di Freud ripercorre la sua personale catabasi negli inferi in un passato in cui si cela la ragione, o le ragioni, di un amore non corrisposto, quello della vita. Le dinamiche familiari, le figure genitoriali, il contesto sociale gravano sull’incapacità di comprenderne il correlativo oggettivo, la sua manifestazione concreta. I pensieri inaccettabili e repressi divengono nevrosi, senza rifugio nell’immaginifico donchisciottiano, ma piuttosto in un onirico rivelatore. Aldo incarna il “disagio di tutta una civiltà” che non resta inconsapevole spettatrice di se stessa, la metà o l’ombra deve essere integrata, in un modo o nell’altro. Allora vaneggiare il suicidio prende le forme alfieriane della liberazione, il confronto con Vittorio, il caro amico, non è, però, il supporto di Tifi, forse anch’egli non propriamente al timone della sua esistenza, radicato, ma falsamente soddisfatto di una scelta da ribelle privato della rivoluzione. Aldo brucerà parte dei suoi ricordi in un gesto simbolico, quasi catartico, tornato alla casa del padre e della madre scorgerà nel paese natio i resti di un’infanzia costrittiva e dolorosa, un’eredità paterna che si erge simbolo fallico di un’inettitudine riflessa, il timore di vivere e di morire, che urla silenzioso nelle sua mente al capezzale di un materno ammonimento, non senza peccato, al pari del Pirobutirro d’Eltino. Il protagonista si percepisce “più maledetto” di Baudelaire, non vede e non sente le sue “corrispondenze”, più volte posto sotto il bancone di esperienze ingiustamente punitive, secondo quella attitudine “pedagogica” di temprare i caratteri deboli all’azione vincente in una società in piena restaurazione, ma ancora fin troppo ancorata a dettami dal sapore arcaico, insieme al confermarsi di ideologie politiche quasi “religiose” a cui affidare speranze e delusioni sociali. Egli si rifiuta di procreare, di essere padre e di rivestire un ruolo fallimentare in partenza, in contemplazione di una verginità che non ha del divino, ma che vela il ridicolo, psicosomatica anch’essa. Carcere è la scuola e carcere è la famiglia e il pater è “l’asso piglia tutto”. Tra madri, sorelle, repentini amori adolescienziali, prostitute e suore, è colei che tenta il suicidio senza riuscirvi a destare l’interesse, l’ammirazione, del professore. Stefania con il suo lanciarsi nel vuoto nel tentativo di estirpare il malessere che giace nel suo grembo, compie un gesto titanico ai suoi occhi. Dovrà ricredersi Aldo, si ricordi bene la caduta dei Titani nel Tartaro, luogo di supplizio e di orrori ripetuti. Stefania, invece, muore di una morte simbolica che la umilia e la riporta alla rinascita, ed è quando Aldo si trova sul punto di terminare il suo viaggio, che giunge la di lei lettera che, per fortuna, sapeva ancora attendere prima d’arrivare, presentandosi al momento di consapevolezze individualmente sopraggiunte, secondo cui: «Non esiste riscatto o guarigione quando sai di essere malato. Non c’è analisi che valga perché capire non significa necessariamente guarire. Aprire gli occhi, accorgersi della purulenza delle proprie piaghe, localizzarle, è solo una conquista a livello di coscienza che se riesce ad assottigliare la frequenza dai pensieri ossessivi e patologici, allo stesso tempo, rivela, però tutta la tragicità della propria condizione: quella di essere un uomo mutilato. Per poter guarire dovrei riappropriarmi del tempo, ritornare indietro a quando il mio orologio interno ha cominciato a barare, girando le lancette più lentamente. Solo così potrei forse recuperare quella parte di me stesso che non è mai più esistita. Ma per poterlo fare, gli altri dovrebbero fermarsi e aspettarmi. Sento che non potrò mai più essere ciò che forse sarei potuto essere. Lo so, vivrò i miei giorni come un uomo a metà: cosciente di ciò che è, e di ciò che non sarà mai» (p. 104).
Aldo Mauri, adesso, non cerca «una mamma questa volta, ma una donna tutta particolare: una metà che non combaci con la mia, che non cerchi di formare un’unità; una metà che mi sia simile. Sì, due ammalati che possono comprendersi perché soffrono dello stesso male. Potrebbe essere una via di uscita per entrambi, e per me anche un appiglio cosciente, non nevrotico, che mi aiuterebbe a tirare avanti ma senza implicazioni cromosomiche», poiché, a volte, «gli amori nascono dalle motivazioni e corrispondenze più strane» (p. 105) e ora tocca a lui “spezzare la catena” di dinamiche familiari ripetitive, perturbanti e disfunzionali.
Eccola l’ombra manifesta di un Sé accettato, integrato, che definisce “malattia”, ma che al contrario, l’autore lo permetterà, definiamo, “consapevolezza”, cognizione del dolore, l’essere divenuto l’uomo all’opposizione, il contemplatore, ovvero, il lottatore schopenhaueriano, tale come scrive Svevo nella lettera a Valerio Jahier del 27 dicembre 1927: «E perché voler curare la nostra malattia? Davvero dobbiamo togliere all’umanità ciò che essa ha di meglio?»
Antonio De Rose pone un ulteriore fondamentale tassello alla letteratura moderna, e forse anche a quella post-moderna, se mai qualcuno si sentirà sufficientemente inadeguato per tale inutile impresa.
Sabrina Granese
Docente e Capo editor La Rondine Edizioni
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