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L’ultimo tabù

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di Francesco Roat

Nell’epoca moderna, la morte, malgrado la continuità apparente dei temi e dei riti, è diventata problematica, e si è furtivamente allontanata dal mondo delle cose più familiari. Così sottolinea Philippe Ariès in Storia della morte in occidente (Rizzoli), precisando come semmai nella sfera dell’immaginario collettivo la figura della morte si sia venuta a legare ad una sorta di eccitazione neurotonica (vedi l’attrattiva dei generi horror), solo attraverso il cui tramite noi tolleriamo essa esprima in modo così drammatico la “rottura dell’ordine abituale”. Diversamente, al di fuori dai confini ben demarcati e rassicuranti dei media (nelle cronache in TV la morte è sempre altrui e altrove; nei film è immagine spettacolare, simulata e artefatta, quindi assai poco inquietante), la morte è divenuta l’inaccettabile da rimuovere, quando non si escogitino più o meno irrazionali tentativi di esorcismo per eluderla.

Come ribadiscono infatti Guidalberto Bormolini e Annagiulia Ghinassi in un loro recente saggio, noi nascondiamo la morte quasi fosse una cosa vergognosa e sporca, limitandoci a scorgere in essa lo scandalo intollerabile della messa a nudo della nostra finitudine. Del resto la stessa psicoanalisi non ha forse decretato che il processo cruciale del nostro venir meno non è rappresentabile, lasciando ai filosofi l’onore/onere di conferirgli o meno un senso e finendo con l’interessarsi solamente all’elaborazione del lutto?

In un’epoca e in un mondo segnati in modo davvero allarmante da narcisismo, superficialità ed edonismo; in una cultura all’insegna dell’individualismo più sfrenato, dove la morte è sempre e solo dell’altro e soprattutto dove l’exitus altrui deve turbare il meno possibile chi resta, una riflessione su come ci si misura con l’inevitabilità del morire può rappresentare l’occasione non solo per interrogarci sul significato dell’esistenza ma anche per riconciliarci con un evento, comune a tutti i viventi, che invece di misconoscere e negare dovremmo apprendere a considerare in modo responsabile e consapevole.

Un tempo, ricordano i due autori: “Appena diveniva noto l’approssimarsi della morte di qualcuno, la sua casa si trasformava in un luogo pubblico. Sapendo prossima la propria fine il morente prendeva le proprie disposizioni e prendeva poi commiato dagli astanti, sempre numerosi. (…) Un ultimo aspetto degno di nota è dato dal fatto che anche i bambini erano coinvolti nell’accompagnamento di chi moriva”. Tutto al contrario di quanto avviene oggi, soprattutto in Occidente (ma non solo, giacché il mondo sta sempre più occidentalizzandosi), dove si muore frequentemente da soli, in un nosocomio, e senza la presenza di minori, che non devono venir turbati da un fatto così inquietante.

Peggio ancora: “La realtà ineluttabile della morte è vista come un fallimento della scienza e delle cure sanitarie, non più come un evento naturale e costitutivo della vita stessa”. Si cerca perciò di rimuovere tutto quanto ha a che fare con il decesso, si parla il meno possibile della sua eventualità ‒ o della certezza che esso dovrà coinvolgere presto o tardi tutti noi ‒, quando invece dovremmo sempre averlo presente

come destino generale e ineludibile. Mentre gli antichi filosofi greci praticavano puntualmente la meleté thanatou: l’esercitarsi anzitempo a morire, non solo per estinguere il timore paralizzante della morte, ma soprattutto per affrontare le difficoltà dell’esistenza con nimo magnanimo.

Per fortuna, anche ai giorni nostri, le pur svariate tecniche di meditazione puntano molto sulla capacità di apprendere ad accettare l’inevitabile e persino ad accoglierlo il più possibile serenamente, tramite l’immobilità fisica, l’attenzione al respiro e il raccoglimento silenzioso nella propria interiorità, abbandonando pensieri, volizioni o pretese, e sperimentando quotidianamente una specie di anticipazione della morte, in modo da permetterci di gestire con sempre meno angoscia le piccole o grandi perdite (vere e proprie morti) che dobbiamo affrontare nella vita.

Si tratta insomma ‒ come insegnano le religioni e le tradizioni sapienziali ‒ di morire all’uomo vecchio per far rinascere in noi l’uomo nuovo. Ricordando che Cristo disse: «In verità, in verità io ti dico, se uno non nasce di nuovo (anothen), non può vedere il regno di Dio» ed inoltre fece ai discepoli questa ulteriore ammonizione: «Chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà». Meditando sulla morte, allora ‒ sottolineano i due autori ‒: “si può morire a una visione egoistica della vita per accedere all’interiorità della coscienza e all’universalità del pensiero del tutto”.

Ma è soprattutto l’idea della morte quale fine annichilatrice (e non piuttosto quale metamorfosi) a turbarci maggiormente. Se contemplassimo quanto avviene in natura, forse muteremmo atteggiamento nei confronti di un venir meno che è trasformazione, se è vero quanto sostiene la scienza in merito a ciò, ovvero che nulla si crea e nulla si distrugge. A tale proposito ritengo sia condivisibile quanto affermano Bormolini e Ghinassi verso la conclusione del libro:

“La natura, infatti, ci parla continuamente di morte ma ci permette di aprirci a una prospettiva nuova, perché tutto parla anche di risurrezione: il giorno che segue alla notte, la morte della spiga di grano che genera nuova vita, la scomparsa della luna e la sua rinascita. Tutto ci narra di una continua trasformazione: di fatto la morte come cessazione non esiste!”.

Guidalberto Bormolini – Annagiulia Ghinassi

Morte

Edizioni Messaggero Padova 2022, pp. 140, euro 13,00

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