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Lo Zibaldone

L’ordine del tempo

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di Francesco Roat

Rispetto a che sia il tempo e in cosa esso consista è nota l’affermazione di Sant’Agostino: “Se nessuno me lo chiede, lo so; se cerco di spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so”. Forse pure nel terzo millennio molti di noi potrebbero pensarla alla stessa maniera, perché oggi come ieri quello del tempo è un mistero; anche per i fisici come Carlo Rovelli ‒ l’autore del celeberrimo libro Sette brevi lezioni di fisica, tradotto in ben 40 lingue ‒ del quale è appena apparso, sempre presso Adelphi, un nuovo stimolante saggio sull’argomento. Basterebbe solo considerare il fatto che, come osserva lo scienziato veronese: “Gli orologi in un laboratorio di fisica vanno a velocità diverse, se uno è sul tavolo e l’altro per terra”; infatti il tempo misurato da strumenti di altissima precisione scorre più veloce sulla vetta di una montagna e più lento in una vallata.

Anzi, precisa Rovelli, sussiste un diverso tempo per ogni punto dello spazio. E prosegue affermando: “Non solo non esiste un tempo comune a diversi luoghi, ma non esiste neppure un tempo unico in un singolo luogo”, poiché esso dipende non soltanto da dove un soggetto si trova ma pure dalla velocità a cui viaggia. Bel rompicapo. Quanto siamo distanti dal buon vecchio Newton, secondo cui il tempo è assoluto e scorre a prescindere dalle cose, persistendo nel suo corso regolare e sempre uguale a se stesso. Tuttavia forse, e qui Rovelli si fa filosofo, non esistono nemmeno in natura le cose/sostanze, semmai gli eventi, gli avvenimenti o cambiamenti che ‒ già suggeriva Aristotele ‒ noi monitoriamo mediante la misura del tempo.

Persino un sasso ‒ osserva il nostro fisico/metafisico ‒: “è in realtà un complesso vibrare di campi quantistici, un interagire momentaneo di forze”. Ma a questo punto c’è da rispondere a (o almeno da porsi) una domanda basilare: che è il reale, ovvero cosa esiste davvero? Rovelli non tenta nemmeno di formulare una risposta a detto quesito, anche perché egli ritiene esso sia mal posto, in quanto la parola reale e il verbo esistere sono termini ambigui. E tale interrogativo finisce col rivelarsi un problema grammaticale/linguistico, non una domanda intorno alla natura. Non sarà che pure quella del tempo forse sia una questione mal posta se continuiamo a considerarlo non relativo ma assoluto, alla maniera newtoniana? Rovelli la mette giù dura: “Per descrivere il mondo non serve la variabile tempo. Servono variabili che lo descrivono: quantità che possiamo osservare, percepire, eventualmente misurare”.

Non tutto, ovviamente, dell’universo (o del multiverso, come alcuni scienziati preferiscono chiamarlo) è misurabile e comunque anche quanto lo è deve tener conto del fatto che i nostri strumenti e i nostri ragionamenti sono frutto (dipendono) dalla struttura del nostro cervello, dalla logica o dagli assiomi a cui facciamo riferimento, nonché dal linguaggio utilizzato. In altri termini: non ci è dato uscire dal mondo per osservarlo, essendo noi parte del mondo. Così le nostre deduzioni, anche quelle scientifiche, sono solo punti di vista: visioni prospettiche. Utilissime, ma mai esaustive: ingenuamente oggettive.

Ulteriore ed ancora più dura considerazione rovelliana: “Nella grammatica elementare del mondo non ci sono né spazio né tempo: solo processi che trasformano quantità fisiche le une nelle altre, di cui possiamo calcolare probabilità e relazioni”. Come a dire/ribadire che l’orientamento del/nel tempo è un nostro modo di porci prospettico, che dipende dalla nostra peculiare configurazione neuronale e da quella caratteristica che ci permette di avere presente i mutamenti avvenuti: la memoria. E qui ‒ voglio dire nella parte finale del saggio ‒ Rovelli, che da fisico s’era fatto filosofo, diviene poeta. Cita Proust e la madeleine (a dire il vero ogni capitolo del libro è aperto da una citazione poetica splendida, tratta dalle Odi oraziane), nonché un antico testo buddhista intorno al problema del soggetto, dell’identità e dell’idea o delle idee che ci facciamo di noi stessi.

Forse (mi rendo conto che in questa recensione ho utilizzato per ben quattro volte questo avverbio problematico) noi siamo giusto le nostre narrazioni. È quanto ha il coraggio di ipotizzare il nostro eccentrico uomo di scienza ‒ e coscienza ‒, che tramite una prosa-poetica estremamente suggestiva scrive, avviandosi verso la conclusione: “Siamo storie, contenute in quei venti centimetri complicati dietro i nostri occhi, linee disegnate da tracce lasciate dal rimescolarsi delle cose del mondo, e orientate a predire accadimenti verso il futuro, verso la direzione dell’entropia crescente, in un angolo un po’ particolare di questo immenso disordinato universo”.

Carlo Rovelli

L’ordine del tempo

Adelphi, 2017

pp.207, Euro 14,00

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