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Lo Zibaldone

Libertà in vendita

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di Francesco Roat

Gran bella cosa la libertà, ma esiste veramente? Non s’è mai placata la disputa tra chi ritiene l’uomo possa liberamente scegliere quale comportamento adottare e chi invece sostiene come non ci sia mai concessa vera libertà, essendo ogni nostra opzione determinata da una o più cause (biologiche o culturali che siano), le quali nulla avrebbero a che fare con una scelta all’insegna dell’autonomia decisionale. Ma forse l’aspetto più interessante del problema è quanto viene prima di un’azione (ritenuta) libera, ovvero quali sono gli elementi che, più o meno inconsciamente, possano sospingerci verso un’opzione o un’altra.

Faccio un esempio: l’ubriacone ‒ in teoria ‒ è libero di smettere con l’alcool, ma spesso non è in grado di farlo poiché dipende da tale sostanza. Quindi egli e pur libero di agire ‒ nessuno glielo vieta/impedisce ‒, però non è libero di riuscire a volerlo davvero fare. Stante quanto detto, l’interrogativo basilare che si pone Valentina Pazé nel saggio Libertà in vendita ‒ ovvero se la prostituzione volontariamente scelta, l’affitto del proprio utero nella maternità surrogata o l’uso del velo da parte delle donne islamiche sia frutto di autentica libertà o meno ‒ è domanda a cui dovremmo cercare di rispondere.

A prima vista sembra proprio che chi decida ‒ senza essere costretta in alcun modo da terzi o da una condizione di estrema indigenza ‒ di fare la escort o la professione di sex worker, abbia scelto di farlo liberamente; ma forse la questione non è così semplice come appare. Prendendo spunto dalla testimonianza di Rachel Moran ‒ ex prostituta pentita irlandese ‒ Pazé ci indica ad esempio tre fondamentali abilità che, secondo Moran, sono indispensabili per una donna decisa a vendersi: “il controllo del riflesso del vomito, il controllo della voglia di piangere, la capacità di dissociarsi psicologicamente da ciò che si sta compiendo”.

Per non dimenticare che un tale mestiere espone chi lo esercita alla possibilità di: “incorrere in tossicodipendenze, depressioni e altre malattie mentali, stupri, omicidi, suicidi”. Oltre al fatto che indubbiamente prostituirsi favorisce: “il ritorno a una sessualità anonima, primitiva, improntata alla sopraffazione del maschio sulla femmina”. Resta comunque il fatto che, entro un contesto neoliberista, la libertà sessuale conquistata dal femminismo possa venir trasformata “in chiave mercantile”, intesa come un sacrosanto diritto a vendere il proprio corpo come una merce qualsiasi, col risultato di una oggettiva reificazione. La domanda da porsi a questo punto è la seguente: nella società contemporanea è opportuno o meno stabilire un limite alla trasformazione di ogni cosa (persona) in merce?

Passando alla maternità surrogata e al di là della facile retorica per cui essa equivarrebbe alla libertà di donare il proprio utero, offrendo “la propria capacità riproduttiva a che ne è privo”, Pazé ci parla piuttosto dei contratti commerciali che vengono stipulati nei Paesi ‒ tra cui l’Ucraina, la Russia, l’India, la Thailandia, il Portogallo, Israele e vari stati degli USA ‒ dove è consentito (legale) l’affitto dell’utero. Contratti che ribadiscono un dato di fondo: solo per denaro si fanno tali donazioni. E un discorso analogo ha da venir fatto pure per il dono (sic) degli ovuli utilizzati nei processi di riproduzione assistita. Purtroppo tali prelievi comportano: “interventi medici invasivi, dolorosi, rischiosi per la salute, soprattutto se ripetuti nel tempo”.

Quanto poi al tema: velo e libertà, cioè se velarsi da parte delle donne islamiche costituisca una scelta libera o invece una soggezione acritica a modelli tradizionali arretrati che opprimono l’altra metà del cielo ‒ per dirla col presidente Mao ‒ impedendo ad esse di mostrare in pubblico parti significative del proprio corpo, sempre secondo Pazé va fatta una chiarezza di fondo. In sé mettere il velo non comporta automaticamente adeguarsi ad un maschilismo coercitivo, non significa obbedire ciecamente ad una cultura patriarcale all’insegna della discriminazione/oppressione. Ossia può ben esser tutto questo se una donna è obbligata a farlo; ma se accetta liberamente il velo, perché mai ciò dovrebbe costituire un problema?

Si pensi a tutte quelle “giovani modelle, influencer, atlete, esponenti politiche che, brandendo non il Corano ma la carta d’identità francese, interpretano il diritto di indossare il velo come una battaglia per la libertà femminile”; fosse pure soltanto per resistere alla tirannia della moda e ai modelli della imperante cultura occidentale. La libertà insomma è una bella parola; tutto dipende da cosa intendiamo per tale vocabolo. E suona davvero un po’ triste pensare ad essa esclusivamente come mera libertà di vendersi.

Valentina Pazé, Libertà in vendita. Il corpo fra scelta e mercato, Bollati Boringhieri, 2023, pp. 192, euro 16,00

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