Lo Zibaldone
L’estetica secondo Edgar Morin
Quando parliamo di estetica facciamo riferimento all’arte in generale, giacché detto termine ha da tempo una precisa denotazione riferibile a ogni tipo di produzione artistica. Tuttavia l’antico vocabolo greco aisthesis, da cui il nostro moderno deriva, indica le informazioni ricevute attraverso i sensi; e proprio da questa parola il filosofo tedesco Baumgarten (a metà del Settecento) ideò il neologismo aesthetica, riferendolo alla conoscenza sensibile e alla teoria del bello; ed è appunto con quest’ultimo significato che da allora in poi il termine fu usato comunemente. Ma, in senso lato, come osserva Edgar Morin ‒ nel suo pregevole saggio intitolato giusto: Sull’estetica ‒, il sentimento estetico è un mix ‟di piacere e di ammirazione” che, se intenso, può trasformarsi in meraviglia, stupefazione e persino ‟felicità”.
Non solo quindi un simile e peculiare sentire è provocato dalla fruizione di un’opera d’arte, ma anche da uno spettacolo naturale o da un oggetto la cui finalità non ha nulla a che fare con l’estetica modernamente intesa ma che, in un certo qual senso, viene estetizzato dallo sguardo di chi lo osserva. Naturalmente ogni cosa ritenuta bella dipende dal panorama e dalla sensibilità culturali entro i quali essa si colloca. Tant’è che un quadro come ad esempio Guernica, di Picasso, difficilmente sarebbe stato considerato esteticamente valido nell’Ottocento.
Se poi però intendiamo passare dalle opere umane al mondo animale o vegetale la faccenda diviene più complessa/problematica. Se infatti ‒ nota Morin ‒ i colori di cui sono dotati gli animali possono venir spiegati/finalizzati allo scopo di mimetizzarsi o, al contrario, di venir riconosciuti dai propri simili: ‟I colori, le forme, i comportamenti non dipendono da ciò che lo zoologo Adolf Portmann chiamava l’«autopresentazione», essere bello per piacere e piacersi? Essere bello per darsi prestigio?”
Sarebbe lecito cogliere dunque, nel mondo degli esseri viventi quantomeno, una sorta di ‟preistoria dell’estetica umana”, una specie di prossimità/continuità tra ciò che potremmo chiamare l’attività artistica della variegata creatività naturale e quella propriamente umana. Passando quindi dall’interrogazione sull’estetica della natura a quella sulla natura dell’estetica, il filosofo e sociologo francese osserva come la (nostra) vita si possa bipolarizzare in due opposte dimensioni. la parte prosaica e la parte poetica, che ‒ ben oltre all’arte stricto sensu, viviamo/troviamo nell’amore, nel gioco o nella festa.
Morin chiama ‟stato secondo” la modalità esistenziale laddove un’emozione è in grado di trasformarci, facendoci sentire aperti nei confronti altrui, colmi di ammirazione, ispirati ed entusiasti. Certo, innamoramento a parte, sono soprattutto le grandi opere d’arte a porci in un tale stato d’incanto; in questo senso la produzione artistica risulta davvero magica e alla fin fine inspiegabile. Nel senso che non possiamo illuderci di piegarla entro le rigide maglie delle nostre teorizzazioni/interpretazioni. La sua magia infatti sta proprio nella bellezza che esprime e di cui ci fa partecipi. Come spiegare, infatti, perché la musica religiosa di Bach riesce a commuovere gli atei, perché la poesia di Omero affascina l’umanità da oltre milleduecento anni?
Morin, parlando della produzione artistica in generale, giunge paradossalmente perfino a dire che essa non è solo il prodotto di questo o quel musico, pittore o scrittore ma che l’opera: ‟si autoproduce più o meno come il bambino si autoproduce nel grembo della madre”. Una forzatura, credo, ma che intende alludere felicemente al mistero da sempre presente nell’arte sin dai graffiti paleolitici delle grotte di Lascaux. Un mistero che lo stesso creativo non sembra in grado di svelare, in quanto egli stesso: ‟non è necessariamente consapevole di ciò che contiene la sua opera, perché quest’opera viene da uno stato secondo in cui la creatività ha superato la sua coscienza”.
Vero è che la musica, la pittura, la scultura e persino la poesia cercano di esprimere ciò che le parole della prosa non possono dire. Non si tratta di mero surrealismo o simbolismo, ma del tentativo di manifestare quanto intimamente l’artista sente urgere dentro di sé tramite un’estasi creativo-comunicativa che è al contempo un’enstasi, per dirla con un termine caro a Mircea Eliade. Poiché, se l’estasi è un’uscita da sé tramite la quale ci si ritrova nello smarrimento/oltrepassamento dell’io, l’enstasi è scoprire in se stessi il tutto o quantomeno il legame, la inscindibile relazione tra noi e il mondo-universo.
Così, scrive ancora Morin: ‟Attraverso l’emozione estetica, scopriamo, impariamo a conoscere il mondo, e specialmente il mondo umano nella sua natura specifica in cui la realtà è intessuta di immaginario e l’immaginario intessuto di realtà”. Giacché, parafrasando Gesù, non di solo pane vivrà l’uomo, ma pure di poesia ‒ nel senso più ampio del termine ‒ e del ‟sentimento estetico” che diviene anche per il profano grata meraviglia, contemplazione, ammirazione, adesione alla bellezza che pervade il mondo o la vita, nonostante tutte le bruttezze presenti in loro; e forse è proprio la poesia l’antidoto migliore per non venire abbrutiti da esse.
Sull’estetica
Raffaello Cortina Editore, 2019
pp. 125, euro 11,00
Notice: Undefined variable: user_ID in /home/kimjcgib/public_html/wp-content/themes/zox-news-childfemms/comments.php on line 49
You must be logged in to post a comment Login