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Thriller

L’estate di Ulisse Mele

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Sono passati undici anni dal giallo di Mark Haddon, Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte, un tempo non eccessivamente lungo a registrare il flusso delle maree editoriali, ma in ogni caso ecco qui un altro romanzo, stavolta italiano, che mette al centro del racconto la figura di un ragazzino disabile. Roberto Alba, l’autore di L’estate di Ulisse Mele (Piemme, 2014) è un coetaneo di Haddon. Ed è un bene che le analogie finiscano qui. Il protagonista quindicenne di Haddon, lo ricordiamo, era un caso di sindrome di Asperger con le annesse peculiarità (talento matematico, difficoltà di socializzazione, idiosincrasie cromatiche). L’Ulisse di Alba ha appena nove anni, è sordomuto, è un primo della classe, ma soprattutto si dimostra infallibile nel riconoscere quando una persona mente. Nonostante l’età di Ulisse, si tratta di un giallo “adulto”: in una Sardegna asfissiata dalla calura estiva, dal volo delle zanzare, dalla presenza del mare evocata solo come un miraggio lontano, Alba muove i personaggi di un delitto di ambiente diciamo domestico, che sembrerebbe apparentato, se non ispirato, ai fatti di Avetrana. Ma il condizionale è d’obbligo, se non altro per l’insistenza di molti drammi che affollano uno stesso spaccato, e che Alba riesce a tenere assieme come avvolgendoli in una garza leggera: la voce del piccolo protagonista. E siamo a un tratto non solo avvincente del romanzo – al giallo del resto non chiediamo molto di più, che la suspance duri fino alla scoperta del colpevole – ma all’elemento che può farci riflettere sulla vocazione stessa del genere in questione. Il sospetto, come ai tempi del romanzo di Haddon, è che poi la disabilità sia semplicemente uno fra i molti “vincoli” che il giallista si autoimpone per tessere da lì l’ordito del racconto. Vincoli più o meno stretti – Miss Marple risolveva i casi dal giardino, don Isidro Parodi dalla cella 273 della Penitenciarìa Nacional – ma in ogni caso vincoli di carattere ambientale. Quando invece l’ostacolo subentra direttamente nel corpo e nella psiche del protagonista forse avviene qualcosa di nuovo: non una diversa “coloritura” dell’indagine, ma lo spostamento del fuoco del racconto verso un preciso clima percettivo. Qui il romanzo di Alba dimostra sapienza e passione: vediamo le cose attraverso i sensi di Ulisse, cioè attraverso un limite, ma fecondo e fantasioso, pieno di articolazioni sghembe, di trovate suggestive, di espressioni fulminanti. La strada è quella battuta a suo tempo da Ammaniti con Io non ho paura – era il 2001 – romanzo narrato “ad altezza di novenne”, tutto scritto in un passato bambinescamente prossimo. Alba lega assieme punto di vista infantile e imposizione di un limite straniante nel quale affogare o strozzare la naturale sequenza percettiva: il giallo tradizionalmente poggia su tali sequenze (sono i dettagli, o gli indizi), che poi il montaggio della storia deve far collimare o confliggere al momento giusto. Alba ha deciso invece per un’operazione soprattutto di “doppiaggio”: il mondo di Ulisse è un paesaggio subacqueo, sordo e muto (come vuole il vincolo), ma anche ingrandito o catafratto secondo la distanza del protagonista dagli avvenimenti. In questo paesaggio, stranamente, la realtà non perde forza, ma acquista un volume inaspettato.

Fabrizio Patriarca

 

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