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L’esilio linguistico di Jhumpa Lahiri, una donna che voleva essere un’altra persona

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di Frank Iodice

“C’era una donna che voleva essere un’altra persona”. Inizia così Lo scambio, il primo racconto che Jhumpa Lahiri scrive in italiano rivelando a se stessa e ai suoi lettori che è pronta per un viaggio meraviglioso, quello verso una lingua straniera, un viaggio da compiere senza paura come se, attraversando un lago, ci si dimenticasse delle sponde e ci si concentrasse unicamente nella riva opposta. Ed è così che l’autrice intraprende il suo lungo percorso linguistico, destrutturando la sua scrittura, finora sicura e solida, e iniziando a scrivere un testo in italiano, che non è la sua lingua madre benché in un certo senso la accolga tra le braccia come una vecchia nonna ritrovata al di là del mare.
Fin dalla sua infanzia, trascorsa parlando bengalese con i suoi genitori, Jhumpa Lahiri ha capito di non appartenere a nessuna lingua giacché anche l’inglese non è la sua lingua madre, ma “una matrigna”. Partendo da questa riflessione, è facile immaginare il suo bisogno di raggiungere quella riva di cui parla, quella meta irraggiungibile perché, anche dopo aver studiato per vent’anni l’italiano, si renderà conto che parlarlo alla perfezione non basta a ritrovare una propria casa. Ci sarà sempre un ostacolo da superare, che risiede nella mente di chi l’ascolta e che sembra rimproverarle di essere diventata così brava, come se questa lingua non le appartenesse e non avesse il diritto di parlarla. Si vede dal suo aspetto fisico che viene da un altro paese, dice Lahiri parlando di una sua visita a Salerno, nel sud, e sarà sempre la prima impressione a contare, prima ancora di dire “buongiorno”.
I suoi articoli, pubblicati su L’Internazionale, interessanti spunti di riflessione per chi studia una lingua straniera con tanta passione come ha fatto lei, sono stati di recente raccolti in un volume intitolato In altre parole (Guanda). L’ho letto e mi sono ritrovato quasi in ogni sua parola, da studioso di lingue, non ho potuto fare a meno di sottolineare alcune frasi che adesso riporterò.
Membro dell’American Academy of Art and Letters, cittadina americana, ma anche cittadina del mondo e soprattutto “cittadina della parola”, un’autrice che ha capito cosa vuole dalla sua scrittura e perché lo vuole. Si scrive per “indagare il mistero dell’esistenza – rivela in uno degli articoli/paragrafi del libro – la scrittura è l’unico modo per assorbire e sistemare la nostra vita”. Tuttavia, come ogni vero artista, non sottovaluta l’importanza di mettersi in dubbio e vivere in bilico tra una sicurezza fatta di successi e un’insicurezza interiore quanto intima. La differenza con altri tipi di artisti è che lo scrittore condivide i suoi dubbi con i lettori, davanti ai quali, come in questo caso, si mette sempre a nudo. Consapevole che l’impossibilità è centrale all’impulso creativo, Lahiri cita, tra gli altri numerosi esempi di autori e autrici che l’hanno guidata in questi anni di ricerca linguistica, l’autore spagnolo Carlos Fuentes: “È estremamente utile sapere che non si potrà mai raggiungere certe vette”.
L’intimità si ritrova in ogni sua parola. Questo testo, nel suo insieme, perde il valore didattico che potevano avere i singoli articoli su L’Internazionale e assume la forma di un diario in cui chi ama vivere nelle parole si ritrova immerso, proprio come se si fosse immerso insieme all’autrice nel suo lago. Eppure, il lago, o l’oceano, o la vita di uno scrittore, si attraversano sempre in solitudine. Scrivere non è un’attività ricreativa da condurre mano per la mano al parco giochi. La stessa Lahiri ci rivela che fin da bambina scriveva per sentirsi sola, era come una maniera di ritirarsi e di ritrovarsi.
Questo libro è un interessante spunto per investigare i processi di apprendimento e comprendere quello che i manuali di linguistica non sono in grado di spiegare. Parlo della magia dei libri, i “mezzi migliori – privati, discreti, affidabili – per scavalcare la realtà”. E tutti quelli che, come Jhumpa Lahiri, sentono di non appartenere a nessun posto specifico, capiranno il valore dell’esilio linguistico, nel quale ritroveranno persino se stessi.
Questo esilio è rappresentato anche da qualcos’altro. Non si tratta solo di paesi di origine. Il proprio paese d’origine è fatto soprattutto di lingua. Quando penso all’Italia, che ho lasciato vent’anni fa, penso all’italiano e mi sento completo perché nella mia lingua madre sono compreso. Allo stesso tempo pensare all’italiano mi fa male, mi confonde le idee.
Mi spiego meglio. Concentrarsi a scrivere o parlare in un’altra lingua è affascinante, è una continua sfida con se stessi, eppure mi dà la consapevolezza che non riuscirò mai a scrivere come in italiano, perché, come tutte le lingue, a sua volta l’italiano è fatto di cultura, di storia, di aneddoti raccontati dai nonni e di tanto altro, di sfumature che non si possono tradurre mai appieno. Ed è di tutte queste sfumature che Lahiri mi ha parlato. Lo hanno fatto anche altri in passato, citati dalla stessa Lahiri, come Samuel Beckett, il genio dell’auto traduzione, colui che ha spiegato al mondo intero che non serve a nulla ostinarsi a scrivere nella propria lingua d’origine. Anzi, scrivere o tradursi in un’altra lingua ti permette di perdere qualcosa di cui tutti parlano con tanta ostinazione nelle aule universitarie: lo stile. Secondo Beckett, perdere lo stile (giacché scrivere in un’altra lingua ti obbliga ad essere più essenziale e non ti permette di “tradurre” anche lo stile come vorresti) è il segreto per una scrittura più scarna ed essenziale. Una scrittura che ti conferirà col tempo un nuovo stile, come se tu stesso diventassi un altro autore.
Anche Domenico Starnone, amico della Lahiri, a proposito dello studio di una lingua straniera, interviene in questo dibattito affermando che “una lingua nuova è quasi una vita nuova, grammatica e sintassi ti rifondono, scivoli dentro un’altra logica e un altro sentimento.” Una conferma delle riflessioni offerte nelle prime pagine. Secondo gli autori citati nel volume pubblicato da Guanda e intitolato In altre parole, unico titolo possibile, se si pensa all’impossibilità di dire qualcosa in italiano con le stesse parole che si userebbero in inglese (e aprendo quindi anche un importante capitolo sui problemi della traduzione o della riscrittura di un testo), i momenti di transizione sono fondamentali nello sviluppo dell’essere umano. Tutto il resto è oblio. E Juhmpa Lahiri ci fa assaporare quest’oblio parlandoci della sua esperienza, che può essere letta sotto molteplici chiavi personali. In quel mondo meraviglioso nel quale vivono le lingue, proviamo tutti a dire quello che sentiamo e finiamo tutti col dirlo “in altre parole”. Perché in fondo quello che facciamo noialtri, costantemente, è “cercare la parola giusta”.

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