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Editoriale

L’editoriale di ottobre-novembre. La vita è di tutti

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di Giuseppe Marchetti Tricamo

Ho incontrato un profugo in carne e ossa. Più ossa che carne. Vagava smarrito per la città, ai margini del parco, alla ricerca della stazione per raggiungere la tappa finale del suo sogno. Aveva fame e sonno ma non mi chiese nulla, fui io a invitarlo, a portarlo con me a mangiare una pizza. Ricordo che intorno a noi si creò un vuoto e crebbe sempre più il brusio (e non era ancora in vigore la Bossi-Fini, quella legge che – come afferma Stefano Rodotà su la Repubblica dell’8 ottobre 2013 – è “quasi un compendio di inciviltà”). Il cosiddetto prossimo disapprovava quel mio gesto mentre io, oggi, rimpiango di non aver fatto di più. Lo sfamai, lo condussi verso la ferrovia, gli diedi un po’ di euro necessari per il treno e per qualche panino. Ero, in quel momento, un padre che aiutava un figlio oppure un europeo che voleva scaricare dalla propria coscienza quel peso che si prova nel vedere nei telegiornali questi esseri umani privati di ogni dignità? I suoi occhi brillavano di gratitudine, accarezzava i muri dei palazzi, li baciava. “Italia, Italia”, mormorava. Non compresi il suo nome. Avrà pensato, questo Paese non è cattivo. Mi abbracciò è andò via. Si girò più volte per salutarmi. Il suo viaggio, mi aveva raccontato in francese e in un italiano un bel po’ stentato, era stato lungo e non era ancora concluso.

Cercava libertà e democrazia. Oltre il mare, gli avevano detto, c’è l’Europa e lì potrai trovarle. Affrontò la navigazione. Erano in troppi. E subito il mare incominciò a farsi brutto e pretese, da quella gente molto debole per reagire, altri sacrifici. Tra le sponde dei due continenti il motore del vecchio barcone, che odorava di legno marcio e del ricordo di un lontano, scarno pescato, si fermò più volte e più volte ripartì a fatica e singhiozzando. Gridavano le donne e piangevano i bambini. Mentre le onde promettevano tempesta. Ma si navigava verso la speranza. L’incubo credettero finisse a Lampedusa. Arrivarono, ma quel giorno la libertà e la democrazia erano in vacanza. Inshallah.

Finisce qui una pagina di quegli appunti disordinati che annotavo su un diario fino a un decennio fa. Erano piccoli fatti della vita di ogni giorno. Poi ho smesso perché stavano diventando fogli di un forte disagio personale per un’Italia che si stava perdendo. Rileggo questa pagina, oggi che provo dolore e rabbia, come tanti di voi, per la strage di centinaia di innocenti, per questa tragedia dell’immigrazione che si è consumata a poche miglia da Lampedusa, dalla baia della Tabaccara. Erano le ultime ore di una notte d’inizio ottobre, che poteva essere serena ma si è invece macchiata di un crimine inumano. Quella luce che improvvisa si era accesa sul mare sarà sembrata, a quei pescherecci all’orizzonte, una lampara lontana. Era, invece, un bagliore di speranza, voglia di squarciare l’indifferenza che navigava a fianco a quel barcone, era ansia di raggiungere un approdo sicuro, bisogno di futuro, desiderio di lacerare il buio di una notte troppo lunga. “Presto la notte finirà/…/ in fondo al cielo/…/ presto la notte se ne andrà/con le sue stelle arrugginite/ in fondo al mare”, avrebbe cantato Fabrizio De Andrè. Ma non è andata così. La luce è diventata fiammata, falò, distruzione. I richiami drammatici, raccontano gli isolani, sembravano urla di gabbiani in pericolo. E la notte si faceva ancora più notte mentre il barcone trascinava in fondo al mare uomini, donne e bambini, troppi bambini, tutti senza nome. Anche i migranti sopravvissuti, quelli salvati dagli eroi per caso di Lampedusa, non hanno nome ma soltanto un numero da prossimi internati nei campi di concentramento dell’indifferenza: 143 uomo, 150 uomo, 288 donna e 289 il suo bambino…

Ancora non sappiamo esattamente cosa sia accaduto a mezzo miglio dalla baia dei Conigli, scrivono il giorno successivo i giornali. Sono allibito. Ma sì che lo sappiamo. Da vent’anni ci sono esseri umani, africani e mediorientali, disperati che per sfuggire alla dittatura, alla guerra civile, alla violenza, superano le insidie del deserto e cedono alle lusinghe del Mediterraneo, che spesso li tradisce.

I più fortunati approdano sulla costa più vicina dell’Europa, a Lampedusa, ma la maggior parte di loro vorrebbe raggiungere i familiari e gli amici in Nord Europa, in Germania (77mila richieste d’asilo, nel 2012), in Francia (60mila), in Svezia (44mila), in Gran Bretagna e in Belgio (28mila), pochi intendono restare in Italia (15mila); ma i Paesi europei sono divisi sul modo di affrontare l’immigrazione e regolare l’accoglienza. Sarà stata questa situazione a convincere il presidente Giorgio Napolitano a chiedere che venga rafforzata Frontex, l’agenzia europea delle frontiere, che dovrebbe vigilare (da Varsavia, dove ha la sede?) su quanto accade nel Mediterraneo. (Nessuno di Frontex ha visto quel barcone, nessun radar l’ha rilevato?). La Commissione di Bruxelles, chiamata in causa, ha risposto rapidamente: “l’Europa farà di più contro gli scafisti ma l’Italia ha già avuto i fondi che servono” (Cecilia Malstrom, commissario per l’Integrazione). Mentre Frontex ha deciso di riallocare due milioni di budget dando priorità all’Italia. È auspicabile, però, che non ci si impegni esclusivamente in azioni di respingimento e rimpatrio forzato dei migranti (senza porsi domande sulla sorte che a loro verrà riservata), ma anche per creare sistemi, canali e modi per rendere sicura, umana, regolare e legale l’immigrazione. Perché “la vita è un diritto di tutti” (scritto sulla maglia indossata dai calciatori nella partita Inter-Roma).

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