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Le poesie di Florenskij

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di Francesco Roat

 

Pavel Aleksandrovic Florenskij (1882-1937) fu filosofo, teologo, matematico, scienziato e financo poeta, tant’è vero che, per le sue eclettiche e geniali qualità, viene oggi ritenuto una specie di Leonardo da Vinci o un Pascal russo. Dopo il liceo egli s’iscrisse alla facoltà di matematica presso l’Università di Mosca, dove si laureò nel 1904, per poi rivolgere il proprio interesse alla psicologia ed alla filosofia antica, iniziando pure a frequentare l’Accademia teologica di Mosca, dove ottenne il suo secondo dottorato quattro anni dopo. Sposatosi con Anna Giacintova nel 1910, fu in seguito ordinato sacerdote e negli anni precedenti la rivoluzione d’ottobre frequentò il circolo simbolista moscovita e la Società Filosofico-Religiosa della capitale, partecipando al dibattito culturale coevo su varie riviste: sia filosofico-teologiche che scientifiche.

Nel 1914 diede alle stampe quello che è possibile considerare un caposaldo del pensiero teologico ortodosso, ovvero il saggio: La colonna e il fondamento della verità.  Verso la fine degli anni Venti, Florenskij ‒ ritenuto ostile al regime in quanto pericoloso oscurantista ‒ venne arrestato una prima volta nel maggio del 1928, quindi nel 1933. A seguito di una severa e ingiusta condanna a 10 anni di reclusione, fu inviato prima in Siberia quindi nel gulag sovietico delle isole Solovki: paradossalmente proprio nel luogo dove un tempo sorgeva un antico monastero. Nel 1937, infine, fu trasferito a Leningrado, dove fu barbaramente giustiziato tramite fucilazione assieme ad altri detenuti.

Tale eminente intellettuale, si diceva, fu anche un poeta. D’altronde, come nota Lucio Coco ‒ nell’Introduzione al volume di questo grande autore russo, Poesie, (con testo originale a fronte), da lui tradotte ‒, in genere: “la prosa di Florenskij tende alla lirica. La potenza delle immagini è tale da trascendere la realtà discorsiva e trasformarsi in una rappresentazione poetica”. I testi in versi qui riportati coprono un arco temporale che va dal 1900 al 1907: un periodo cruciale della sua travagliata e troppo presto interrotta esistenza. Essi rivelano molto della personalità, del pensiero, dell’atteggiamento religioso-spirituale, nonché del modo di porsi di uno scrittore ancora purtroppo poco noto in Italia. E giusto un’antologia come questa ‒ di agevole lettura ‒ può contribuire probabilmente a far conoscere Florenskij anche da parte di un pubblico più vasto dei lettori interessati ai suoi testi filosofico-teologici.

A partire dal testo poetico intitolato Cos’è la poesia? ‒ una libera traduzione dall’analoga breve opera di Alfred de Musset ‒, dove il giovane Pavel Aleksandrovic, in sintonia con il collega francese, precisa che con essa è possibile non solo: “Prolungare eternamente il sogno di un istante”, ma in primo luogo “amare e la verità e la bellezza”. La poesia consente inoltre di: “cercare la loro concorde armonia”. E al contempo: “Ascoltare, come il genio batte nel cuore. / Cantare, piangere e ridere da solo, / sempre senza uno scopo, come capita”. Ne In treno, del 1901, Florenskij è ancora in cerca della propria autenticità, se ammette: “Davvero in eterno / sono stato condannato a cercare me stesso”. Palesando un’inquietudine che appare pure in A un incrocio, dove egli confessa, sia pure utilizzando il plurale: “Ci troviamo a un incrocio / e tremiamo per la tenebra. / Nella piena trepidazione dell’attesa / noi aspettiamo l’aurora”,

Altrove il novello poeta scrive di provare: “Un senso di mistero ‒ dappertutto attorno” e, similmente al Goethe del Faust, nota come: “Tutto è simbolo, tutto cela un senso”, accennando all’armonia che l’universo reca in sé. Nel Canto del frammassone ribadisce quindi l’invito a guardare le cose “con più profondità e attenzione”, insistendo: “più sotto, più sotto getta lo sguardo; / il senso di tutto percepisci”. Il giorno del Venerdì Santo poi, memore della passione di Gesù, con una franchezza fideistica che stupisce per la sua freschezza, scrive: “non so / se questa notte vivrò oppure morirò nella / Vita Eterna”.

In Autunno tardivo, invece, amaramente riconosce di non aver sufficiente fede in Dio, col dire: “Di nuovo, protendendomi davanti a Te, / mi torco le mani: / con l’amaro assenzio in bocca / nuovamente confesso il rinnegamento”. Anche in Dalle parti di Kostroma il giovane Florenskij denuncia senza remore la propria difficoltà a credere ‒ un po’ come fece l’uomo che disse al Cristo: Credo; aiuta la mia incredulità! (Mc 9,24) ‒ “Cerco di ricordare, avi, le preghiere di tristezza e gioia, / (…) mi spingo invano a ricordare le divine parole benefiche, /consunte dal tempo. // vani sono gli sforzi, avi”. E ancora, in Amor fati, torna l’ammissione del proprio umano, troppo umano sentirsi incerto, fragile, incapace di pregare: “La fine è vicina, Dio lontano, / e io non oso rivolgere con l’anima / una preghiera a Lui, non ne ho la forza”.

Ma ora basta commenti. Meglio lasciare la parola conclusiva ai versi del poeta, tratti dal finale de Alla finestra: “Andiamo verso un languore che non dà dolore // ‒ «Lì non ci sono petali: così io dovrò andare / per un sudario [niveo]? Tra fiocchi di neve? / Là i rami gemono in un freddo delirio / e si protendono al cielo come picche». // ‒ Non è un sudario! No, è un addobbo nuziale. / Il mio cuore trema: Egli è vicino… / Ha fretta Lui… Balza attraverso il recinto grigio. / Eccolo, di nuovo è apparso, ‒ tu guarda, dai. // ‒ «Io vedo la nostra triste e marcia staccionata / deformarsi in lontananza muta», / ‒ Entra nel cortile! Ecco, è già entrato. / Io sento i passi… E bussa!…”.

Pavel Aleksandrovic Florenskij, Poesie, Nino Aragno Editore, 2024, pp. 177, euro 20,00

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