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Lo Zibaldone

Le declinazioni dell’amore

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di Francesco Roat

Anche se l’anno del settecentesimo anniversario della morte di Dante si è appena concluso, non è opportuno ricacciare nel dimenticatoio un poeta per molti versi attualissimo, specie nell’ambito della tematica amore, da lui ampliamente trattata nelle sue varie forme e sfumature. E la modernità del Nostro sta forse soprattutto ‒ come nota lo psicoterapeuta Raffaele Floro, che ha appena pubblicato un interessante e puntuale saggio sull’argomento ‒ nel ritenere giusto l’amore: “una via privilegiata per approfondire il senso delle cose che accadono”, considerandolo opportunità privilegiata al fine d’ottener virtute e canoscenza. Ma non solo, se è vero che esso rappresenta una sorta di forza motrice che sospinge l’uomo ‒ e la donna ‒ verso l’altra/o facendolo/la uscire dall’autoreferenzialità dell’io per incontrare il tu, e costituendo quindi una via animica in grado di superare il paralizzante narcisismo tutto pretese e richieste; affinché si generi in noi un’apertura/disponibilità allo sbocciare dell’inaudito e dell’inatteso (verrebbe da osare: del miracolo).

Certo, vi sono molteplici modalità di vivere l’amore e, dice bene Floro, la diversità delle figure femminili presenti nella Divina Commedia corrispondono indubbiamente: “a diverse forme dell’amore”; in secondo luogo tali personaggi costituiscono pure: “un’occasione d’incontro” da parte di Dante “col suo femminile”, ed altresì la possibilità di cogliere l’amore quale “ricerca di se stesso”, se condividiamo quanto ebbe a scrivere Simone Weil intorno all’amour che consente di scorgere ciò che è invisibile. Non da ultimo si può ben intendere cristianamente l’amore come caritas o agape; in altri termini: come attenzione, accoglienza ospitalità/disponibilità e cura non soltanto verso una persona ma nei confronti di tutti gli esseri umani. Ne consegue che ridurre amore a mera espressione della sessualità, a pathos che rapisce e stordisce rischia d’imprigionarci entro l’angustia di una passionalità meschina, la quale al contempo finisce col privilegiare un’ottica produttrice d’una visione del mondo riduttiva e miope.

“L’amore ha bisogno di rappresentazioni che sono connesse a vari gradi dell’esperienza”, nota Floro, accennando ai vari incontri danteschi con altrettante donne che simboleggiano appunto i molteplici stadi di esso. Così, rifacendosi a Jung, sono quattro i livelli dell’anima che Floro ravvisa nel percorso esistenziale/emozionale dantesco, individuate attraverso le figure di: Eva (in cui emerge soprattutto la fisicità/attrattività femminile), Elena (dove l’eros ha un volto estetico/romantico), Maria (imago di donna completa/generosa) e infine Sofia (indice della raggiunta pienezza spirituale). Agevole individuare nella giovane Petra, che pare non ricambiò lo slancio dell’Alighieri nei suoi confronti, l’Eva dantesca (rappresentata pure da Matelda nel Purgatorio); mentre Beatrice rappresenta in un primo tempo per il poeta la sua Elena, per poi trasmutarsi infine in Sofia nel Paradiso. Però, onde giungere alla sapienza del vivere, bisogna incontrare/riconoscere Maria quale archetipo d’una saggezza che tutti accoglie, o quale esemplare figura numinosa, come essa è splendidamente ritratta attraverso la visione dantesca della Vergine nella paradisiaca Candida Rosa.

L’assenza d’amore viene invece rintracciata dal poeta italiano per antonomasia nell’Inferno, dove sono presenti: “ignavia, lussuria, avidità, ira, arroganza, frode, tradimento e violenza”. Inferno è dove/quando l’essere umano ‒ osserva Florio, da bravo psicoanalista ‒ risulta: “accecato dalle proprie passioni, imprigionato dai propri istinti”, che non gli permettono distanziarsi da sé. Tuttavia, insegna il mistico Giovanni della Croce, è giusto nella noche oscura (notte oscura) dell’angoscia e della pena che l’anima può rivelarsi, perché vacilla l’attaccamento non solo a noi stessi ma anche alle caratteristiche che riteniamo ci appartengano e definiscano; mentre sono solo aspetti parziali, umbratili e transeunti. Ma è solo riconoscendo la nostra Ombra, per dirla ancora con Jung, che è possibile iniziare, dopo la catabasi (o buia discesa ai personali inferi) l’anabasi (o ascesa verso la luce redentrice).

Visitando poi le sette balze del Purgatorio, Dante: “ci indica come trasformare i comportamenti colpevoli” tramite la purificazione realizzabile non a caso tramite l’amore, lungo un sofferto itinerario di cambiamento, atto a promuovere sempre più ‒ secondo Floro ‒ la: “liberazione dalle paure, dai pensieri ossessivi e dai condizionamenti compulsivi”. Solo dopo aver compiuto un tale cammino di crescita spirituale è possibile mutare la concezione limitativa dell’amore quale ambito erotico-affettivo privilegiato con un/una partner disponibile ‒ o, peggio ancora, come mera fruizione/signoria del corpo altrui ‒ sino a cogliere la più ampia prospettiva della “realtà sovrasensibile” di tale vasta dimensione relazionale. Poter giungere al Paradiso, per Dante non sarà allora banalmente varcare le soglie di un eden fantasmatico, dove crogiolarsi nel miraggio illusorio dell’assenza del male, ma ‒ e ritengo opportuno chiudere questo mio breve intervento citando ancora una volta le parole davvero illuminanti di Floro ‒ riuscire a: “interpretare l’amore nei confronti di una donna come trasposizione di un legame che elimina la distinzione tra soggetto e oggetto, grazie all’immaginazione che dona la qualità percettiva del femminile”.

Raffaele Floro, Ne li occhi porta la mia donna amore. Dante, la Divina Commedia e l’amore perduto al tempo della pandemia, Moretti&Vitali, 2022, pp. 163, euro 16,00.

 

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