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Lo Zibaldone

Le cento e più Sicilie nel ricordo di Bufalino

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L’antico borgo di Mandanici, alle falde dei monti Peloritani, reagisce allo svuotamento con sorprendente vivacità sollecitando importanti intellettuali a discutere del passato pensando al futuro.   

DI LUDOVICO FULCI

Ci sono luoghi che “muoiono”, mostrando perciò d’essere vivi, perché solo ciò che è vivo può morire. L’Italia è piena di luoghi del genere, che sono paesi che vanno svuotandosi, abbandonati dai loro abitanti che preferiscono la città. Tra questi paesi c’è Mandanici in provincia di Messina, un tempo fiorente centro agricolo a pochi chilometri di distanza dalla costa jonica, che una via provinciale, oggi a fatica percorribile, univa ai centri di Val Demone.

Proprio qui Mandanici, dal 9 all’11 settembre 2016,  si è tenuto l’ormai consueto convegno di studi ogni anno organizzato dal professor Giuseppe Mento. Segnali di sorprendente vitalità sembrano suggerire che Mandanici non intenda rassegnarsi alla propria fine e va detto che l’idea di ragionare di mente, cervello e cultura in un paesino di tradizioni agricole è molto più coinvolgente di quanto possa immaginarsi. L’assunto da cui muove Mento è all’incirca che il cervello umano, grazie alla sua plasticità, risponde alle sollecitazioni di un retaggio culturale che porta la mente a elaborare principi e valori che definiscono, talvolta a fatica, una cultura. In realtà il processo da noi così linearmente descritto è molto più complesso. A dimostrarlo ci sono le molteplici patologie note al neurologo che tratta nella realtà ospedaliera pazienti che la medicina di un tempo confinava nei cosiddetti manicomi, di fatto sostenendone l’incurabilità.

Contadino, scarpe grosse cervello fino, recita un antico proverbio, quasi a dire che la campagna è esente dalle follie cittadine. Da questo punto di vista non stupisce che a Mandanici si ragioni ogni anno di storia, ambiente, tradizioni, tutte cose che descrivono l’adattabilità dei singoli alla complessa realtà socio-culturale di appartenenza.

Alla presenza del sindaco Armando Carpo, che ha tenuto a seguire i lavori delle tre giornate, si sono alternati al microfono vari studiosi, tutti meritevoli d’attenzione, alcuni dei quali noti per un prestigio nazionale come Girolamo Cotroneo e Giuseppe Campione, altri sicuramente più che capaci di intrattenere in modo coinvolgente un uditorio interessato e attento. Tutto ciò per parlare – citiamo dal documento ufficiale distribuito all’ingresso del luogo del convegno – della Sicilia e le sue culture. Tema stimolante anche perché cadenzato, secondo quanto chiarisce il sottotitolo, dall’invito a porre la pluriculturale storia siciliana in relazione all’esigenza del conoscere, pensare e agire.

Non potendo ricordare qui tutti gli interventi e tutti i relatori, ci limiteremo a dar conto di quelle relazioni che, per diverse ragioni, si sono mostrate particolarmente efficaci. Già dalla prima sera, una prova di quanto la sicilianità sia una cosa diversa dalla compostezza anglosassone, è venuta dall’architetto Salvatore Scuto, il quale, invece di parlare dell’argomento posto in calendario, cioè “La Sicilia e le sue culture dai Bizantini ad oggi”, ha illustrato un interessante punto di vista circa la ricostruzione delle città rase al suolo dai terremoti, argomento che agli inizi di settembre apparteneva alla cronaca recentissima, per dire che le città demaniali siciliane in gran parte distrutte dal terremoto del 1693, furono ricostruite in tempi ragionevolmente brevi, ignorando l’esigenza di conservare o ricostruire quanto fosse stato demolito dalla furia della natura. Oggi alcune di quelle città sono fra le più belle della Sicilia, come Catania e Noto.

Nella seconda giornata si è entrati nel dettaglio di alcune questioni e Sergio Piraro ha piacevolmente intrattenuto i presenti ragionando della Sicilia, delle sue culture nella letteratura di viaggio, col garbo tipico del francesista, che conosce l’amore dei Francesi per il viaggiare. Lo stesso può dirsi di Sergio Bertolami che ha relazionato sul Sicilian Scenery di Peter de Wint, illustrando il Grand Tour “a distanza”, come Bertolami lo ha definito. E qui per capirci, occorre dire che la distanza nasce dal fatto che gli acquerelli di De Wint, a cui si fa riferimento, sono rielaborazione di schizzi di William Light, ufficiale inglese che nel 1820 aveva visitato la Sicilia.

Meritatamente applaudita la relazione di Carmen Scarcella, sulla Sicilia di Bufalino, che muovendo dalla Diceria dell’untore, ragiona delle cento Sicilie di Bufalino. Dotta e documentata la relazione di Laura Carracchia sulla Sicilia e le sue culture, che ha mostrato come la memoria storica si sia venuta costruendo in un difficile rapporto con la tradizione. Ma autenticamente esplosiva è stata la relazione di Amelia Crisantino, che, analizzando un inedito di Michele Amari, ha mostrato come fosse un “falso”, montato da un gruppo di esperti, la versione nel tempo diventata ufficiale della Costituzione del 1848.

A tirare le somme, sono quindi intervenuti nel pomeriggio della serata conclusiva Matteo Allone  che ha giocato con sottigliezza sul confine tra possibile e impossibile. A chiudere il convegno Marcello Aragona che ha illustrato alcuni reperti archeologici del sito di Argimusco, luogo ricco di suggestioni e di “vibrazioni” psichiche. Segno che il passato chiama il presente a vivere.

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