Lo Zibaldone
L’arte e il tempo
di Francesco Roat
Ogni opera artistica è collocata in un determinato ambito temporale, eppure in un certo qual senso l’arte sembra annullare il tempo e la bellezza che da essa promana la rende eterna, assieme al suo artefice. La Gioconda è sempre presente e Leonardo accanto a lei. In parallelo l’arte non comporta un vero e proprio progresso. Lo ribadisce Franco Rella in uno dei sui saggi a mio avviso più coinvolgenti, di recente dato alle stampe da Jaca Book. Così il provocatorio taglio sulla tela di Fontana non va considerato un progresso rispetto a un quadro di Picasso, così come il ciclo di dipinti picassiani ispirati alle Meninas di Velázquez non lo è rispetto alla pittura di quest’ultimo. Quello che un’opera d’arte ci permette di sperimentare è dunque una sorta di dimensione kariologica, immettendoci ‒ scrive Rella ‒ in un: “tempo senza tempo”; di fronte ad un enigma che alcuna interpretazione potrà mai del tutto decifrare.
Qualunque discorso razionale stona a confronto con l’arazionalità (non la mera irrazionalità) dell’arte, cui forse è meglio accostarsi in silenzio e senza ad ogni costo volerla/doverla spiegare; giusto come fanno i monaci del monte Athos davanti alle loro icone, di cui essi nulla dicono ma che semmai ascoltano. Concordo senz’altro con Rella quando trova rischioso “circoscrivere in parole l’arte”, col magro risultato di impoverirla e di attenuarne la valenza perturbatrice. Unheimlich, ovvero perturbante, come ebbe a notare Freud, è aggettivo antitetico rispetto alla dimensione rassicurante e nota della dimora (Heim) e della patria (Heimat). Tale caratteristica obbligata dell’arte è quindi la sua precipua. L’arte deve sorprendere, spaesare, stupire, offrirsi come ciò che ci consente di guardare al mondo, all’uomo e alle cose attraverso uno sguardo prospettico altro, innovativo, inconsueto. Ma potremmo pure far nostra la seguente (semplicissima ma felicissima) sintesi del saggista roveretano intorno al valore/senso dell’arte, in quanto essa: “testimonia l’eterna presenza del passato e il suo valore, ciò che ci ha fatti e costituiti”.
Essendo ben consapevoli tuttavia di come ogni forma d’arte spalanchi sulla realtà un angolo visuale inedito sì, però sempre parziale; mostri cioè un’immagine fatta di luci ed ombre, di chiarezza e al contempo di oscurità. A ben considerare l’arte è la metafora per eccellenza, ci trasporta oltre ogni sua raffigurazione (o negazione di questa), alludendo ad un mondo altro ‒ ad un diverso modo di abitare o disertare il mondo ‒ e forse persino indicandoci la possibilità di una metafisica minore, designabile appunto con l’iniziale minuscola, per non confonderla con quella filosofica dall’iniziale maiuscola, così saccente nello spacciare per certezza, assolutezza e/o verità ciò che è poi solo hybris: vana tracotanza.
Franco Rella si interroga sul tempo del moderno, da lui qui considerato come il periodo che va circa dagli anni ottanta del XIX secolo fino agli anni ottanta del secolo scorso. Una modernità abbastanza recente, spesso collocata nell’ambito ad essa più congeniale: la città o meglio ancora la metropoli, con la sua mutevolezza prospettica, la inquietudine degli umani che la abitano o vorrebbero fuggirla, e la smania di velocità che tutti contagia. Non che nel testo manchino analisi su pittori paesaggisti, ritrattisti o autori di nature morte; né interventi sugli scrittori più emblematici/problematici della modernità, quali ad esempio Nietzsche, Proust, Rilke e Kafka. Resta il fatto che nel XX secolo l’arte figurativa entra in crisi, avendo abdicato alla mimesis: alla vocazione rappresentativa di un qualche oggetto, optando ormai per quella che Rella chiama piuttosto sfigurazione.
Così, tramontata ogni tentazione neoclassicheggiante, la bellezza ‒ vista come cifra essenziale dell’arte ‒, la cosiddetta armonia delle forme non ha davvero più cittadinanza nella caotica metropoli novecentesca? Forse si è semmai operato ‒ con Alberto Giacometti, Francis Bacon, Lucian Freud ed altri ‒ il tentativo di pervenire ad essa (ad un’altra specie di essa) tramite il superamento dei limiti: “oltre l’orrore o addirittura nell’orrore”. L’arte, nella sua tensione ad esprimere l’inesprimibile, ha nel secolo scorso non più temuto di attraversare il repellente e il mostruoso; è opportuno ricordare tuttavia che monstrum in antico era indice di segno prodigioso, di ammonimento da prendere in seria considerazione. Insomma, per liberarci del falso problema legato al tramonto della bellezza, torno a citare l’autore che ‒ qui come altrove ‒ cita a sua volta gli autori più amati/frequentati: “L’arte che è solo bella, ha detto Hermann Broch, è Kitsch, ottunde il senso, ed è dunque il male, è il male assoluto che nell’arte si manifesta”.
Arte tardo-moderna come superamento del realismo, allora? Come definitiva rinuncia ad ogni pretesa mimetico-rappresentativa o meglio ancora come espressività che non rappresenta nient’altro che se medesima? Ovvio, noi assistiamo da tempo alla “liquefazione generale del visibile”, che viene colto invece dalla fotografia e dal cinema. Ovvio, l’arte astratta può non convincere i benpensanti. Ovvio, provocazioni quali l’orinatoio di Marcel Duchamp e la merda d’artista di Piero Manzoni riescono, all’inizio del nuovo millennio, a generare ancora in molti sbigottimento e a farli strologare se si sia giunti alla morte dell’arte (o quanto meno del suo potere simbolico). Ed è ben vero che la scelta (abusata) della performance, che svanisce al termine della stessa: “manifesta la precarietà, la caducità delle cose del mondo, trascinate in una vorticosa e inarrestabile corsa del tempo. Una corsa che tende drammaticamente al nulla”. Ed è altrettanto vero che i murales, i graffiti e gli altri supporti della street art non sono eterni ma sbiadiscono, possono venir cancellati o rimossi.
Ma l’arte contemporanea che non si pieghi alla logica mercantilistica del nostro tempo e non voglia soltanto épater le bourgeois, lungi dal voler rappresentare meramente questo o quell’aspetto dell’umano, dovrebbe forse tendere a mettere in crisi ogni velleità esaustiva, ogni ambizione a completezze improbabili; mirare ad aprire interrogativi, varchi che fessurino l’integrità solo apparente dell’opera bella, forzando i vecchi schemi e osando mettere in discussione se stessa come simulacro, idolo, feticcio. Dice bene Rella, l’importante è giungere a: “penetrare le lacerazioni del mondo e le nostre lacerazioni”, trovando il coraggio: “di guardare dentro l’incompiuto. Nel suo apparire in quanto incompiuto”.
Franco Rella, L’arte e il tempo, Jaca Book, 2021, pp. 296, euro 50,00
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