Lo Zibaldone
L’arte di trasformare la mente
di Francesco Roat
Alan Wallace è uno studioso statunitense stimato non solo quale emerito esperto delle varie tradizioni religiose buddhiste, nonché quale docente universitario autore di numerosi saggi e traduttore di testi classici della spiritualità orientale, ma è pure ‒ e forse innanzitutto ‒ un monaco praticante, ordinato a suo tempo dal Dalai Lama in persona. Questo solo per dare un’idea della preparazione, dell’impegno e della precisa scelta esistenziale di un uomo che ha dedicato la propria vita a diffondere in Occidente l’insegnamento del buddhismo tibetano.
Di Wallace è stato recentemente pubblicato in Italia un libro sull’allenamento mentale che in Tibet viene chiamato lajong ‒ parola composta giusto dai termini: lo (mente) e jong (allenare, purificare, liberare) ‒ e basato sugli insegnamenti del maestro buddhista Atīśa, vissuto circa mille anni fa. Scopo di tale pratica è, nota l’autore: “ottenere uno stato di benessere genuino”, che non è tuttavia il raggiungimento d’una chimerica vita felice senza problemi, bensì il realizzare una condizione di magnanimità, salute spirituale e serenità indispensabili ad una condotta esistenziale equilibrata, in grado di affrontare ogni evento senza farsi turbare minimamente da esso.
Gli esercizi del lajong sono articolati in sette punti o gradi, di cui ci soffermeremo qui sui primi tre. Il grado iniziale prevede di allenarsi nei cosiddetti preliminari: sorta di riscaldamento atletico tonificante. Si tratta di meditare in modo discorsivo intorno ad alcune considerazioni ritenute in grado di trasformare la mente. Uno dei pensieri basilari, da avere ben presenti, è la straordinaria opportunità sempre a nostra disposizione quotidianamente per migliorarci, tenendo conto che nessuna cosa/vicenda è in sé positiva o negativa, fonte di gioia o sofferenza, ma tutto dipende dal modo con cui ci relazioniamo ad essa.
Altro pensiero utile è quello che ritiene l’attaccamento e l’avversione (a questa o quella realtà) le radici di tutti i mali. A tale proposito nota Wallace: “Quando soffriamo, abitualmente identifichiamo la fonte della sofferenza come qualcosa ‘lì fuori’: gli altri, le situazioni, il traffico, il governo”, e chi più ne ha più ne metta. Ma per il buddhismo la fonte di ogni malessere sta nella nostra mente dualistica che divide la realtà in bene e male.
Il secondo punto riguarda la meditazione ovvero ‒ assai sinteticamente – l’arte di fare attenzione, in profondo rilassamento, a quanto accade: nel fisico, nella mente e fuori di essi. Senza preoccuparci dei pensieri che sopraggiungono o dei disagi del corpo e della psiche, rimanendo immobili ed in silenzio. Si tratta altresì di divenir consapevoli del proprio respiro, senza pretendere di controllarlo o modificarlo. Ma non basta: occorre avere coscienza della propria coscienza, giungendo infine a scoprire d’esser noi fondamentalmente pura consapevolezza, manifestazione d’una unità globale onnicomprensiva, al di là dei distinguo che operiamo fra soggettività e oggettività, io ed altro rispetto a me.
Il terzo punto è riassumibile in una formula felice: “trasformare le avversità in un sostegno per il risveglio spirituale”. Facile da dirsi, molto difficile da realizzarsi. Anche se ‒ in quest’ottica ‒ è proprio il desiderio di ottenere il meglio o la brama di conseguire l’illuminazione a costituire il maggiore ostacolo: che è poi quello dell’egocentrismo, il quale è, per i buddhisti, l’errore principale, fonte di ogni infelicità. Non bisogna quindi porsi alcuna meta, alcun obiettivo da raggiungere, praticando invece la più totale accettazione ed accoglienza.
Dopo il terzo grado del lajong ne seguono altri quattro, i quali non fanno comunque che ribadire e/o approfondire quanto suggerito nei primi tre punti chiave. Così, per chi fosse interessato a tale insegnamento, non resterà che esaminarli leggendo il libro di Wallace e cercando magari di metterli in pratica. Lascio infine la parola all’autore per una considerazione conclusiva su cui riflettere:
“Nella prospettiva buddhista tutti i problemi del mondo, dalle piccole questioni interpersonali a quelle grandi, geopolitiche, sono fondamentalmente il risultato dell’illusione. Perciò il rimedio ultimo è la saggezza, che può essere coltivata proprio come la compassione e la pazienza. Una sfaccettatura della saggezza è l’intelligenza (…). Un altro tipo di saggezza è quella primordiale, che è innata e non viene generata. Non è possibile inquinare o purificare la saggezza primordiale, acquisirla o perderla. La saggezza primordiale non si coltiva: si rivela”.
Alan Wallace, L’arte di trasformare la mente. La pratica tibetana del lajong, Ubaldini Editore, 2024, pp. 263, euro 22,00
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