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Lo Zibaldone

La tenebra divina. Saggi di metafisica

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di Francesco Roat

Dopo l’edizione de Il grande brivido. Saggi di simbolica e arte (1987) e de La danza di Śiva (2001), Adelphi torna a pubblicare (quantunque a seguito d’una latitanza durata parecchi anni) un altro volume di Ananda K. Coomaraswamy ‒ eminente studioso dei rapporti tra la civiltà simbolica orientale e quella occidentale ‒ che comprende vari suoi testi ermeneutici. Si tratta de La tenebra divina. Saggi di metafisica, ovvero di un’interessante serie di scritti che costituiscono il vertice del pensiero di tale originalissimo pensatore singalese nel suo periodo maggiormente fecondo, favorito dall’incontro con le opere di René Guénon.

Secondo Coomaraswamy, seguace della cosiddetta philosophia perennis ‒ termine ideato per la prima volta da Steuco nel secolo XVI e quindi ripreso da Leibniz, il quale lo utilizzò per indicare l’eterna filosofia comune a tutte le grandi religioni e tradizioni spirituali ‒, è possibile avere accesso ad una verità immutabile in cui troverebbe appunto radicamento ogni autentica espressione religiosa e/o mistica: dall’induismo al cristianesimo, dal neoplatonismo all’islam. Espressioni tuttavia, che non si limitano solo a quelle testuali/dottrinali, ma che trovano pure formule coerenti nelle liturgie, nei riti sacri e nelle pratiche ascetico-meditative; ambiti che il Nostro invita a leggere quali: “dialetti di un unico linguaggio spirituale”.

Non a caso, sin dall’inizio del libro, Coomaraswamy fa riferimento a Śāṅkara: saggio appartiene alla cultura induista dell’advaita vedānta, per cui la realtà è indivisa. Per il Vedānta (che significa: parte finale/essenziale dei testi sacri chiamati Veda), infatti, essa è ben altro rispetto a ciò che la nostra mente discrimina separando il soggetto dall’oggetto, l’io dal mondo, la creatura dal creatore. Secondo i Veda, dunque, e soprattutto secondo la scuola dell’advaita vedānta (il primo termine significa giusto: non duale), al di là dell’apparenza fenomenica, esiste solo una realtà unitaria/onnicomprensiva (il Brahman) da cui erroneamente noi ci sentiamo separati.

Ma attenzione, puntualizza l’autore, a non confondere/banalizzare l’idea metaforica di non-dualità con i nostri concetti di monismo o panteismo. In quanto advaita è: “termine che nega la dualità senza però affermare nulla circa la natura dell’unità”. Nell’induismo peraltro non è mai questione di definizioni teoretiche, enunciati astratti o rigidi paradigmi filosofici dalla vocazione sistematica, come quelli moderni di stampo occidentale. “La realtà ultima della metafisica è una Suprema Identità in cui si risolve l’opposizione di tutti i contrari, anche dell’essere e del non essere” ‒ nota Coomaraswamy ‒: “i suoi «mondi» e i suoi «dèi» sono livelli di riferimento ed entità simboliche che non corrispondono a luoghi né a individui, ma sono stati dell’essere realizzabili interiormente”.

Vale la pena di riflettere su questa frase così pregnante e significativa del diverso modo di essere filosofi: se costruttori di schemi concettuali o amanti della sapienza/saggezza. Una saggezza che, per il pensiero espresso dalle sia pur differenti tradizioni religiose/spirituali (ma dissimili solo in parte: superficialmente o essotericamente, potremmo dire) comporta non già un impegno basato sulla teoria bensì sulla prassi. Quindi comprendere il Vedānta ‒ o il buddhismo ‒ non significa averne soltanto una conoscenza verbale/intellettuale ma viverlo, aderendo/partecipando esistenzialmente ad esso.

Anzi la mistica di tutti i tempi – sia occidentale che orientale ‒ considera non soltanto cosa di assai poco conto il sapere mondano, esteriore, fenomenico, ma ritiene che il saggio abbia in primo luogo da spogliarsi di ogni egotismo e liberarsi dall’amor di sé (philautia), debba operare una salutare presa di distanza da ogni tipo di attaccamento risolvendosi piuttosto all’accettazione/accoglienza di ogni evento, per quanto doloroso o negativo possa apparirgli. È questo il cammino impervio che, a qualsiasi latitudine e in qualsiasi era, deve intraprendere il mistico, il quale ha da misurarsi non con ideologie o dogmi ma con: “il compito più arduo che consiste nel compiere quell’«annientamento di sé» e la conseguente «realizzazione di Sé».

Lungi dal prospettarsi come un impegno assurdo o nichilista, in tutte le tradizioni religiose morire a se stessi equivale perciò a salvarsi compiutamente. Vedi a tale proposito il monito cristico: “Chi cercherà di salvare la propria vita, la perderà; ma chi la perderà, la manterrà viva” (Lc 17,33). Gli esempi potrebbero essere moltissimi altri e Coomaraswamy lo sottolinea più volte: “Sono letteralmente centinaia i testi che si potrebbero citare dalle Scritture cristiane, islamiche, vediche, taoiste e altre ancora, nonché dalle loro esplicazioni patristiche, testi che concordano puntualmente, talvolta fino alla lettera”.

Al di là comunque delle innumerevoli ed illuminanti comparazioni ‒ qui effettuate quasi ad ogni pagina ‒ tra le diverse ma paradossalmente così analoghe tradizioni e/o simbologie spirituali, al di là della vastissima conoscenza dei testi religiosi riversata dallo studioso singalese in questo suo libro oserei dire indispensabile per chi sia interessato ad accostarsi al mondo del sacro e del mistero, ciò cui preme soprattutto al Nostro credo sia far comprendere ai lettori che alcun discorso potrà mai essere esaustivo intorno a tale dimensione. Il termine mistero, infatti, deriva dal verbo greco myein, che indica l’atto di chiudere gli organi sensoriali, quindi chiudere gli occhi e tacere, arrendendosi al mysterion del sacro: al segreto della sua ineffabilità.

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