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Non solo libri

La straordinaria Elettra di Manfrè

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di Marta Galofaro

Quale il ruolo dell’uomo nella vicenda tragica? È vittima o carnefice? I sofisti erano arrivati ad un antropocentrismo incontestabile e ad attribuire alla parola valore ontologico: “Molte sono le forma dei destini umani” è, non a caso, la conclusione di alcune tragedie di Euripide. Il personaggio davanti ad una situazione reale può reagire in infiniti modi, può possederla ma anche essere posseduto a secondo di come si mescolano eroismo e fragilità. Nell’Atene del tragediografo la lirica si sostanzia. L’orrore della guerra e il desiderio di pace, la crisi delle istituzioni e il disorientamento che ne consegue portano a sentire il fatto artistico come soddisfazione di un bisogno di evasione e di fruizione. Dopo la crisi politica che segue la guerra del Peloponneso, la Grecia si avviava ad un nuovo equilibrio politico in cui l’uomo di cultura e l’artista erano dissociati dalla vita politica e in Euripide è possibile cogliere il passaggio dall’età classica a quella ellenistica, il passaggio da una dimensione universale ad una dimensione più intima e privata.

A Comiso, nella suggestiva location della Cripta della chiesa di San Francesco all’Immacolata, un cast straordinario ha portato in scena Elettra di Euripide per la regia di Walter Manfrè.

Arianna Di Stefano e Mauro Racanati interpretano magistralmente Elettra e Oreste prigionieri, captivi del dolore e del rancore da cui, come in gabbia, non trovano vie d’uscita. La loro è una schiavitù interiore che non permette di elaborare il lutto per il padre Agamennone. Ma è proprio questa prigionia a rendere particolarmente vicina alla nostra sensibilità quest’opera.

Euripide supera la dimensione mitica per raccontare la condizione in cui vivono due figli tormentati al punto da commettere il più efferato e contro natura dei delitti: il matricidio. E il matricidio nell’Elettra di Euripide è un fatto personale. Elettra, una regina, compare nella quotidianità in cui si adatta a vivere spogliata di tutto e sposa di un contadino povero. Lo scenario tragico si è completamente dissolto per lasciare il posto a figure quotidiane e borghesi. Persino Clitennestra non è la regina sanguinaria, ma una donna che negli anni ha riflettuto ed è maturata: non gioisce più dell’antico delitto e si precipita dalla figlia non appena la manda a chiamare, disposta a perdonare la minaccia di morte che lei le rivolge. È naturale che il sentimento dei fratelli subito dopo il matricidio, non sia di soddisfazione ma di raccapriccio. Elettra convince Oreste ad uccidere “l’infame Tindaride”, ma il giovane è privo di qualsiasi connotazione eroica.

Nella cripta dell’Immacolata la scenografia scelta da Manfrè è essenziale, ma concreta e simbolica al contempo: al centro della scena un cervello intorno al quale Elettra gira in maniera ossessiva: con Manfrè la moderna psicanalisi è vera protagonista dell’Elettra. All’opera di Euripide non è stata cambiata una parola e il dramma di ieri è il dramma di oggi, non a caso  il prologo del Passeggero, interpretato con naturale scioltezza da Giorgio Lupano in abiti moderni, crea un’atmosfera di immediata familiarità. Il cervello al centro della scena è la chiave di tutto, Elettra ci trascina nel suo rimuginare il passato, nei suoi pensieri di morte e riuscirà a trasportarvi anche Oreste e a coinvolgerlo nel matricidio. Manfrè ha voluto “cercare di addentrarci nei flussi di natura psicoanalitica intercorrenti all’interno dei personaggi del Mito e fra essi e l’uomo dei nostri giorni”. Così “le vicende di Elettra, Oreste e Clitennestra passano in secondo piano e sembrano diventare sfondo rispetto alla necessità di autodistruzione, che anima i nostri nuclei familiari contemporanei. Forse anche se Clitennestra non avesse ucciso Agamennone e Agamennone non avesse ucciso Ifigenia, forse anche in quel caso Elettra anelerebbe al sangue della madre. Come vi anelerebbe anche Oreste, pur se non fosse comandato dal dio”.

 

Marta Galofaro

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