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La solitudine del Minotauro
di Francesco Roat
Queste righe non rappresentano solo la conseguenza d’una lettura apparsami accattivante e, di concerto, l’esplicito invito a leggere un saggio oltremodo penetrante; non costituiscono appena una recensione all’ultimo ‒ purtroppo ‒ libro dell’amico Franco Rella, recentemente scomparso, ma vogliono essere anche un sia pur modesto omaggio a uno fra i più colti, perspicaci/vivaci intellettuali italiani, nonché autore assai prolifico (a cui una volta chiesi quanti testi avesse pubblicato e lui, con la franca schiettezza che lo caratterizzava, rispose: Qualche decina); infine intendono essere un ringraziamento a questo valente professore roveretano per tutto ciò che ci ha insegnato e lasciato in eredità.
La solitudine del Minotauro è ‒ come sempre avviene negli scritti di Rella ‒ una riflessione sull’umano, ma particolarmente s’incentra sugli aspetti che apparentemente potrebbero esser colti come la caratterizzazione di quanto a prima vista appare piuttosto disumano. Vedi appunto la figura mostruosa del Minotauro: uomo e bestia al contempo; l’alieno per antonomasia. Ciò che non vorremmo essere, ma che al contempo ci attrae, sia pure in modo perturbante, dall’ambito oscuro ed inconscio dell’Ombra, per dirla con Jung.
Il Minotauro, si sa, è costretto entro un labirinto da cui non può fuggire. E Franco vede in esso la metafora di una comune condizione esistenziale che, per molti versi, ci appartiene senz’altro. Non possiamo infatti fuggire dalla finitudine, dalla vulnerabilità e dalla instabilità che limitano i viventi. Ma non solo. Il labirinto è simbolo d’altro ancora. Esso ritrae pure l’inquietudine di fronte alla disincantata consapevolezza d’esser stati heideggerianamente gettati nel mondo e la condizione di inanità che talvolta ‒ spesso o sempre ‒ ci pare appartenga alle cose del mondo fin dai tempi dell’Ecclesiaste (vanitas vanitatum).
Così Franco, bloccato in casa nel periodo più acuto della pandemia da Covid, tramite la scrittura cerca di evadere dal proprio labirinto ‒ da questo luogo così immaginifico e realistico al contempo ‒osservando quello altrui. O meglio gli innumerevoli labirinti in cui si sono sentiti bloccati e smarriti gli autori da lui più amati/frequentati: Kafka, Rilke, Nietzsche, Dostoevskij, Joyce Baudelaire, Bataille, Proust, Camus, Aragon e tanti altri. Così il labirinto sempre più finisce, qui, col rivelarsi “un luogo-non luogo”, la regione astratta ma psicologicamente reale d’un doloroso spaesamento (l’Unheimlichkeit di Freud), d’una terra desolata (la Waste Land di Eliot). Mai Franco è stato così sincero nella disarmante ammissione del proprio umano, troppo umano sentirsi fragile e smarrito. E rivolgendosi con la seconda persona a se stesso ‒ quasi in una sorta di presentimento della propria fine imminente ‒ ha avuto il coraggio di confessare il peso della: “coltre di abitudini che si distende sulla tua vita, che ti pare non essere più solcata da desideri o attese”.
“Sei ancora nel mondo”, scrive poi, “ma sull’orlo di un mondo assente”, ritenendosi financo “povero di linguaggio”. Tuttavia ciò è ben lungi dall’esser vero. Non è la sua prosa a rivelarsi manchevole, bensì il linguaggio di per sé a mostrarsi povero, ovvero incapace (perfino mediante l’espressione poetica) di dire quanto auspicheremmo sul mistero della vita e della morte. Ma torniamo al Minotauro ed ai vari miti e personaggi che hanno in qualche modo a che fare con tale emblematica ed irrisolta figura. Franco ce ne presenta una folta schiera, indagandone con la consueta perizia i tratti, da una prospettiva inedita e illuminante. Tra di essi spiccano ovviamente Teseo ed Arianna; non mancano nemmeno Narciso, Edipo & figli: in quanto compartecipi di un’affollata solitudine e sofferenza, destinata a sfociare in una sorta di cupio dissolvi.
Sì, il Minotauro è solo, anche Franco è solo, tutti noi fondamentalmente lo siamo di fronte all’ineluttabilità del nostro fatale venir meno, verso il quale ci muoviamo in una specie di caotico o labirintico “procedere senza una meta”. Tale specie d’avventura è però indecifrabile o meglio interpretabile solo a partire da premesse la cui validità è appena frutto di un consenso sempre provvisorio e a rischio di revoca. Ma lasciamo l’ultima parola a Franco, che in tale modo chiude queste sue variazioni/divagazioni su quello che potrebbe venir definito un Urmythos, un mito davvero primigenio e basilare:
“Io ho sognato, e nel sogno ho visto vorticare intorno a me, gruppi di lettere indecifrabili, aggregati di consonanti senza vocali che permettessero di ipotizzare almeno delle sillabe. Si muovevano colorati intorno a me, probabilmente schegge di parole spezzate, frantumate. Dormivo ancora? Mi pareva di poter riconoscere in quei volteggianti corpuscoli i frammenti delle mie parole e questo mi portava fuori del sogno, in uno spazio posto fra realtà e allucinazione. Forse è lo spazio in cui si generano le storie, e forse è lo spazio in cui le storie si rompono insieme alle parole che dovrebbero raccontare”.
Franco Rella, La solitudine del Minotauro, Nino Aragno Editore, Torino 2023, pp. 156, euro 18,00
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