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Poesia

La poesia contemporanea evolve in tragedia: intervista a Luigia Sorrentino su “Olimpia”

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di Matteo Bianchi

Quando una narrazione scaturisce dalla necessità di interpretare i sogni e i bisogni collettivi per avverarli, per assolverli senza forzature né esercizi di potenza, si rivela lungimirante, ovvero degna di un futuro. È il caso dei miti che si sono fondati sulla nostra capacità creativa. Ed è uno dei motivi per cui Olimpia, la raccolta pluritradotta di Luigia Sorrentino edita da Interlinea, ha già avuto due edizioni – la prima nel 2013 e la seconda l’anno scorso – e a breve arriverà una terza ristampa. Ma di più, il libro in questione si è evoluto da poema a spettacolo teatrale, intitolato Olimpia, tragedia del passaggio e inscenato nel giardino romantico di Palazzo Reale durante l’estate del Napoli Teatro Festival. Non sempre l’egemonia spetta alla versione dei vincitori, dei condottieri e dei re, non sempre chi crede di avere in pugno il passato controlla l’esito del presente. D’altronde, secondo Harari il mito fa parte della cosiddetta realtà immaginata, una risorsa interiore imprescindibile, che consente all’essere umano di superarsi prima del tempo grazie al suo sguardo immaginifico. «Questo è il momento, disse / il cuore era l’offerta»: da una grotta universale Sorrentino comincia così a rivisitare l’oggi volgendosi al bacino del mito.

“Tragedia” deriva dal greco tràgos, che sta per “becco”, “capro”, e ôdia che sta per “ode”, “canto”, quasi una “canzone del capro”, ossia il canto che in origine accompagnava il sacrificio della bestia durante le feste dionisiache. L’etimo della parola quindi contiene un risvolto doloroso che si attua inevitabilmente con una ferita, una perdita da parte dei singoli rispetto alla realtà circostante. Dal volume Olimpia a Olimpia, tragedia del passaggio ha sacrificato i suoi versi per andare oltre la loro funzione?

«Accettare la sfida. Questo ha significato per me la messa in scena di una mia opera di poesia organica e complessa. Ho dato il mio consenso alla rappresentazione in un momento terribile per la storia dell’umanità: la pandemia da Covid-19. Ho seguito solo qualche prova dello spettacolo. E dalla mia prospettiva ho osservato come altre persone hanno sperimentato il linguaggio poetico. Il teatro è un luogo in cui tutto può cambiare. Questo per me non ha significato tradire la poesia, ma lasciare che altri se ne appropriassero per un tempo limitato. Qualcosa di simile avviene nella traduzione: il linguaggio subisce uno spostamento, diventa “un approssimarsi alla cosa in sé”, perché nessuna traduzione è davvero possibile. La poesia però non è mai tradita per davvero, perché sta lì, nella lingua del libro che è già stato scritto».

Olimpia è donna, è la città per antonomasia, è il corpo collettivo che raccoglie la finitudine degli esseri umani da singoli individui a comunità. Il suo nome ne anticipa la discendenza: in quanto figlia dell’Olimpo raccoglie l’assoluto. In che modo le ha dato delle sembianze?

«La regista Luisa Corcione, che ha letto le mie note sui tre personaggi (Olimpia, Iperione ed Empedocle), ha consegnato alla platea una creatura selvatica, primordiale, proveniente da un mondo ctonio. La nascita di Olimpia è stata vissuta sulla scena come un evento numinoso, grandioso, di grande impatto emotivo».

La duplice natura di Olimpia che nasce dal grembo terrestre e si volge all’arco celeste rappresenta l’ambivalenza della parola stessa, che al contempo è sia phonè sia lògos, voce e pensiero insieme. È riuscita a preservarla?

«Si, direi di sì, soprattutto nel primo movimento ho riconosciuto la mia Olimpia, una creatura ctonia al pari di Iperione. Olimpia è nata quindi sulla scena, da un antro, un utero-grembo, da una cavità sotterranea per poi elevarsi sulla terra, a divinità. Avevo descritto nelle mie note sui personaggi Olimpia come una donna-uccello, e la regista ne ha tenuto conto».

Mario Benedetti considerava l’opera di Hölderlin «un imprescindibile riferimento» per lei, prima con Iperione nel libro, titano votato al caos per affermare se stesso, poi con lo sviluppo di Empedocle in scena.

«Empedocle era già in embrione nella raccolta e nella pièce si è imposto dal vivo in una dimensione spazio-temporale. Ne Il sonno, infatti, si accenna al tema della colpa. Nella sezione il personaggio è innominato, è già l’ombra di se stesso: in Olimpia è infatti il ragazzo che si suicida perché ha compiuto qualcosa di indicibile… e si lascia morire in una cavità, tra roccia e roccia. Nella tragedia del passaggio Empedocle, invece, è proprio un personaggio: è l’artista che deturpa la civiltà.

«Sostenemmo ciò che fummo / ciò che non eravamo ancora», è un distico fondamentale per la comprensione scenica. Nella resa a canovaccio come ha conservato questa ciclicità, questo ripetersi salvifico del tempo, ma ugualmente impietoso?

«Nella tragedia del passaggio il distico è entrato nella definizione del rito che compie Iperione-Empedocle mentre Olimpia nasce. È in quel momento che i due personaggi abbandonano la contesa partecipando al mistero del sacro della nascita della divinità che riguarda anche loro, che è anche dentro loro. Però poi Iperione si contrapporrà a Olimpia in una specie di danza della morte, mentre Empedocle fa qualcosa di peggiore: con la sua protervia si contrappone al tempo mitico della città spezzandone l’armonia. Quest’uomo che si crede un dio, che brandisce lo strumento della conoscenza, crea un ponte che non riuscirà a unire i due volti del mondo, ma crollerà separando inesorabilmente l’oriente dall’occidente e perdendo così la sua potenza».

 

 

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